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giovedì 1 novembre 2012

Sulla lingua per il romanzo



Lettera a Claude Fauriel ( naturalmente, il testo è scritto in francese)
Milano, 3 novembre 1821


Per indicarvi in breve la mia idea fondamentale circa  romanzi storici, e mettervi così sulla via  per rettificarla, vi dirò che concepisco tali romanzi come la rappresentazione di una data condizione della società fatta attraverso vicende e caratteri così simili alla realtà che essa possa apparire una storia vera appena appena scoperta. Quando sono ad essa mescolati avvenimenti e personaggi storici, credo che si debba rappresentarli nel modo più rigorosamente storico: perciò, ad esempio, in Ivanhoe, Riccardo cuor di leone mi sembra figura difettosa. Quanto poi alle difficoltà opposte dalla lingua italiana alla trattazione di questi argomenti, esse sono reali e grandi, ne convengo; ma penso che derivino da un fatto generale, che purtroppo vale per ogni genere di componimenti. Questo fatto è ( mi guardo intorno per assicurarmi che nessuno mi ascolti ), questo triste fatto è, a mio parere, la povertà della lingua italiana. Quando un francese cerca di rendere il meglio possibile le sue idee, vedete che abbondanza e che varietà di modi trova in questa lingua che va formandosi da tanto tempo e giorno per giorno: in tanti libri, in tante conversazioni, in tanti dibattiti di ogni genere. Così un francese ha una regola per scegliere le sue espressioni, e questa regola la trova nei suoi ricordi, nelle sue abitudini, che gli danno un senso quasi sicuro della conformità del suo stile con lo spirito generale ella sua lingua; non deve consultare il dizionario per sapere se una parola urterà o sarà accettata; si domanda se essa è francese o no, ed è pressochè sicuro della risposta. […]
  Immaginate invece un italiano che, se non è toscano, scrive in una lingua che non ha quasi mai parlato, e che ( anche se è nato nel paese privilegiato ) scrive in una lingua che è parlata da un piccolo numero di abitanti d’Italia, una lingua nella quale non vengono discussi oralmente grandi problemi, una lingua in cui le opere relative alle scienze morali sono assai rare e distanziate nel tempo […]  Manca del tutto a questo povero scrittore quel sentimento per così dire di comunione col suo lettore, quella certezza di maneggiare uno strumento ugualmente conosciuto da entrambi.
 Supponiamo che egli richieda se la frase che ha appeno scritto è italiana: come può dare una risposta sicura a una domanda che non è precisa? Perché, che cosa significa italiano in questo senso? Secondo alcuni quel che è consegnato nella Crusca, secondo altri quello che è capito in tutta Italia, o dalle classi colte; i più non applicano a questa parola alcuna idea precisa. […]
Nel rigore scorbutico e pedantesco dei nostri puristi c’è a mio parere un sentimento di fondo molto ragionevole: è il bisogno di una certa stabilità, di una lingua concordata fra coloro che scrivono q coloro che leggono; credo solo che essi abbiano torto a credere che nella crusca e negli scrittori classici ci stia tutta la lingua; e quando anche ci stesse, avrebbero ancora torto a pretendere che la si cercasse lì, che la si imparasse, che ci se ne servisse; perché è assolutamente impossibile che dai ricordi di una lettura risulti una conoscenza sicura, vasta, applicabile a ogni istante, di tutto il materiale di una lingua. Ditemi ora come deve comportarsi un italiano che, non sapendo far altro, vuole scrivere. […
Penso con voi che scrivere bene un romanzo in italiano sia una delle cose più difficili, ma questa difficoltà la vedo, benché in grado minore, anche in altri generi letterari; e con la coscienza, non completa ma assai sicura, che ho dell’inadeguatezza dell’artefice, ho anche la coscienza quasi altrettanto sicura dei limiti che provengono dalla materia.

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