Lettera a Claude Fauriel ( naturalmente,
il testo è scritto in francese)
Milano, 3 novembre 1821
Per indicarvi in breve la mia
idea fondamentale circa romanzi storici,
e mettervi così sulla via per
rettificarla, vi dirò che concepisco tali romanzi come la rappresentazione
di una data condizione della società fatta attraverso vicende e caratteri così
simili alla realtà che essa possa apparire una storia vera appena appena
scoperta. Quando sono ad essa mescolati avvenimenti e personaggi storici, credo
che si debba rappresentarli nel modo più rigorosamente storico: perciò, ad
esempio, in Ivanhoe, Riccardo cuor di
leone mi sembra figura difettosa. Quanto poi alle difficoltà opposte dalla
lingua italiana alla trattazione di questi argomenti, esse sono reali e grandi,
ne convengo; ma penso che derivino da un fatto generale, che purtroppo vale per
ogni genere di componimenti. Questo fatto è ( mi guardo intorno per assicurarmi
che nessuno mi ascolti ), questo triste fatto è, a mio parere, la povertà della lingua italiana.
Quando un francese cerca di rendere il meglio possibile le sue idee, vedete che
abbondanza e che varietà di modi trova in questa lingua che va formandosi da
tanto tempo e giorno per giorno: in tanti libri, in tante conversazioni, in
tanti dibattiti di ogni genere. Così un francese ha una regola per scegliere le
sue espressioni, e questa regola la trova nei suoi ricordi, nelle sue
abitudini, che gli danno un senso quasi sicuro della conformità del suo stile
con lo spirito generale ella sua lingua; non deve consultare il dizionario per
sapere se una parola urterà o sarà accettata; si domanda se essa è francese o
no, ed è pressochè sicuro della risposta. […]
Immaginate
invece un italiano che, se non è toscano, scrive in una lingua che non ha quasi
mai parlato, e che ( anche se è nato nel paese privilegiato ) scrive in una
lingua che è parlata da un piccolo numero di abitanti d’Italia, una lingua nella quale non vengono discussi oralmente
grandi problemi, una lingua in cui le opere relative alle scienze morali sono
assai rare e distanziate nel tempo […]
Manca del tutto a questo povero scrittore quel sentimento per così dire
di comunione col suo lettore, quella certezza di maneggiare uno strumento
ugualmente conosciuto da entrambi.
Supponiamo che egli richieda se la frase che
ha appeno scritto è italiana: come può dare una risposta sicura a una domanda
che non è precisa? Perché, che cosa significa italiano in questo senso? Secondo alcuni quel che è consegnato
nella Crusca, secondo altri quello che è capito in tutta Italia, o dalle classi
colte; i più non applicano a questa parola alcuna idea precisa. […]
Nel rigore scorbutico e
pedantesco dei nostri puristi c’è a mio parere un sentimento di fondo molto
ragionevole: è il bisogno di una certa stabilità, di una lingua concordata fra
coloro che scrivono q coloro che leggono; credo solo che essi abbiano torto a
credere che nella crusca e negli scrittori classici ci stia tutta la lingua; e
quando anche ci stesse, avrebbero ancora torto a pretendere che la si cercasse
lì, che la si imparasse, che ci se ne servisse; perché è assolutamente
impossibile che dai ricordi di una lettura risulti una conoscenza sicura,
vasta, applicabile a ogni istante, di tutto il materiale di una lingua. Ditemi
ora come deve comportarsi un italiano che, non sapendo far altro, vuole
scrivere. […
Penso con voi che scrivere
bene un romanzo in italiano sia una delle cose più difficili, ma questa
difficoltà la vedo, benché in grado minore, anche in altri generi letterari; e
con la coscienza, non completa ma assai sicura, che ho dell’inadeguatezza
dell’artefice, ho anche la coscienza quasi altrettanto sicura dei limiti che
provengono dalla materia.
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