BAUDELAIRE
Lo straniero
“A chi vuoi più bene, uomo
enigmatico, dì: a tuo padre, alla madre, alla sorella o al fratello?
“non ho padre, né madre, né
sorella, né fratello”
“ Ai tuoi amici?
“Voi adoperate ora un
vocabolo che fino a tutt’oggi mi è rimasto di significato ignoto
“Alla patria?
“Ignoro sotto quale
latitudine sia posta
“Alla bellezza?
“Volentieri l’amerei dea e
immortale
“All’oro?
“ L’odio quanto voi odiate
Dio
“ Oh, ma dunque, che piacce
a te, straniero singolarissimo?
“ Mi piacciono le nuvole – le
nuvole che passano, laggiù, laggiù, le nuvole meravigliose.
La folla è così intrinseca
alla poesia di Baudelaire che non c’è di essa una vera e propria
rappresentazione, la poesia la implica, se ne abbevera. In A una
passante,
non una parola che chiaramente
indichi la folla, eppure tutto il
processo poetico riposa su di essa, è sullo sfondo della città caotica, in
continuo, confuso fermento che si staglia per un attimo –epifania metropolitana
– questa figura ignota di donna, chiusa nel mistero della sua vita e del suo
dolore, con cui scatta la consonanza del poeta, la donna che assurge a simbolo dell’amore sognato,
dell’incontro salvifico ma impossibile.
A una passante
Ero per strada, in mezzo al
suo clamore,
esile e alta, in lutto,
maestà di dolore,
una donna è passata. Con un
gesto sovrano
l’orlo della sua veste
sollevò con la mano.
Era agile e fiera, le sue
gambe eran quelle
D’una scultura antica.
Instupidito
Bevevo nei suoi occhi vividi
di tempesta
La dolcezza che incanta e il
piacere che uccide.
Un lampo… e poi il buio! –
Bellezza fuggitiva
Che con un solo sguardo
m’hai chiamato da morte,
non ti vedrò più dunque che
al di là della vita,
che altrove, là, lontano – e
tardi, e forse mai?
Tu ignori dove vado, io dove
sei sparita;
so che t’avrei amata, e so
che tu lo sai!
E’ all’interno della città-
Parigi-, cuore pulsante del moderno, che scaturiscono le visioni di Baudelaire,
fantasie non di evasione, legate ai
mille volti della vita e di essa rivelatrici, spesso orribilmente deformantisi in incubi e
voluttuosi impulsi distruttivi. Le “scene della vita di Parigi” si fanno così
allegorie della desolazione e della
corruzione, dell’ambiguo e del promiscuo della civiltà moderna e balenii ,
insieme,dell’unico, possibile Autentico.
Le seguenti poesie fanno
parte di quella sezione dei Fiori del
male intitolata Qudri di Parigi
Il
crepuscolo della sera
L’incantevole sera, amica del
delitto, ecco venire
A complici passi di lupo.
L’orizzonte
Si chiude lentamente come
un’immensa alcova,
l’uomo impaziente si
trasforma in belva.
Sera, amabile sera,
vagheggiata
Da chi può dire ( e non
mente ) alle sue braccia:
Quanto lavoro avete fatto! –
sera,
conforto d’ogni cuore che un
dolore selvaggio azzanna, dalle fronti
dell’operaio che torna,
curvo per la fatica, nel suo letto!
Per l’aria intanto, demoni
malsani
Si svegliano come gente
d’affari, pesantemente, e in volo
Sbattono contro imposte e
pensiline.
Fra luci incerte,
frastagliate dal vento, nelle strade
Riprendde vita la Prostituzione:
spalanca, formicaio, mille
uscite,
scava ovunque, nemico che
tenta una sortita,
misteriosi sentieri,
s’agita nelle vene della
città di fango
come un avido verme dentro
il corpo d’un uomo.
Senti, qua e là, soffiare le
cucine,
abbaiare teatri, ronfare le
orchestrine;
nelle pensioni, fatte
allegre al gioco, si raduna
copia di prostitute e di
ruffiani,
e anche i ladri, che non
hanno mai pace, presto avranno
il loro solito da fare
a far saltare con dolcezza
cassette e serrature
per campare qualche giorno,
per vestire le amanti.
Raccogliti, mio cuore, in
quell’istante,
non dare ascolto a quel
ruggito. E’ l’ora
solenne che i malati
peggiorano: la Notte
li prende, cupa, alla gola:
per ciascuno
il destino si compie
nell’abisso
comune, nella corsia gremita
di sospiri. – Più d’uno
non potrà più cercare la
minestra odorosa,
la cena accanto al fuoco, a
un cuore che ama…
E più ancora son quelli che
non han mai saputo
Come è dolce una casa, che
non han mai vissuto!
I sette vecchi
Città brulicante, piena di sogni, dove
in pieno giorno gli spettri adescano i
passanti!
Nel colosso possente, per le vene
colano, umori vischiosi, i misteri.
Un
mattino che nella triste strada
sembravano le case, per la bruma, più
alte
e d’un fi ume in piena fi ngevano le
sponde
e, scenario che al cuore dell’attore
somiglia,
di sporca, gialla nebbia lo spazio era
gremito,
lungo il corso agitato da pesanti carrette
scendevo, tesi i nervi eroicamente,
discutendo con l’anima già stanca.
Di colpo, un vecchio, che per gialli
stracci
somigliava al piovoso di quel cielo,
tale che di elemosine l’avrebbero coperto
se cattiveria nei suoi occhi non avesse
brillato,
mi comparve davanti. Sembrava l’occhio
immerso
nel fiele; appuntivano il gelo le sue
occhiate;
di lunghi peli, rigida spada, la sua
barba
come quella di Giuda era sporgente.
Non curvo, ma spezzato: la sua schiena
formava con le gambe angolo retto
e, a fornire l’aspetto, suo bastone
gli procurava l’aria e la goffa andatura
d’un quadrupede infermo o d’un ebreo a
tre zampe.
Nella neve, nel fango andava, incespicando,
e come, con gli zoccoli, calpestando dei
morti,
al mondo, più che indifferente, ostile.
Un altro lo seguiva: barba, schiena,
bastone, stracci, sguardo,
niente lo distingueva dal primo, scaturito,
gemello centenario, da un solo inferno;
andavano
spettri barocchi in coppia verso una meta
ignota.
In che infame complotto ero dunque
caduto,
o che perfido caso mi imitava? Di minuto
in minuto
la
moltiplicazione di quel vecchio sinistro
fino a sette m’accadde di contare!
Pensi chi si fa beffe del mio scompiglio,
chi
non è scosso da un brivido fraterno,
pensi che avevano, quei sette orridi
mostri, tutta l’aria
d’essere, in tanto decomporsi, eterni!
Avrei, senza morire, potuto contemplare
l’ottavo, implacabile sosia, ironico e
fatale,
di se stesso, ripugnante Fenice, padre e
figlio?
– Ma al corteggio infernale do’ le
spalle.
Sconvolto come un ubriaco che vede doppio,
vado a casa, mi tiro dietro l’uscio,
morto di spavento,
malato e pieno di freddo, torbido di
febbre,
piagato dall’assurdo e dal mistero!
Invano cercava, la mia mente, di prendere
il timone:
soffiava via i suoi sforzi la tempesta, e il
mio cuore
ballava e ballava, vecchia chiatta, in
balìa
di un oceano mostruoso e senza fine!
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