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venerdì 11 gennaio 2013

BAUDELAIRE



BAUDELAIRE

Lo straniero

“A chi vuoi più bene, uomo enigmatico, dì: a tuo padre, alla madre, alla sorella o al fratello?
“non ho padre, né madre, né sorella, né fratello”
“ Ai tuoi amici?
“Voi adoperate ora un vocabolo che fino a tutt’oggi mi è rimasto di significato ignoto
“Alla patria?
“Ignoro sotto quale latitudine sia posta
“Alla bellezza?
“Volentieri l’amerei dea e immortale
“All’oro?
“ L’odio quanto voi odiate Dio
“ Oh, ma dunque, che piacce a te, straniero singolarissimo?
“ Mi piacciono le nuvole – le nuvole che passano, laggiù, laggiù, le nuvole meravigliose.


La folla è così intrinseca alla poesia di Baudelaire che non c’è di essa una vera e propria rappresentazione, la poesia la implica, se ne abbevera. In  A una passante,
non una parola che chiaramente indichi  la folla, eppure tutto il processo poetico riposa su di essa, è sullo sfondo della città caotica, in continuo, confuso fermento che si staglia per un attimo –epifania metropolitana – questa figura ignota di donna, chiusa nel mistero della sua vita e del suo dolore, con cui scatta la consonanza del poeta, la donna  che assurge a simbolo dell’amore sognato, dell’incontro salvifico ma impossibile.

A una passante

Ero per strada, in mezzo al suo clamore,
esile e alta, in lutto, maestà di dolore,
una donna è passata. Con un gesto sovrano
l’orlo della sua veste sollevò con la mano.

Era agile e fiera, le sue gambe eran quelle
D’una scultura antica. Instupidito
Bevevo nei suoi occhi vividi di tempesta
La dolcezza che incanta e il piacere che uccide.

Un lampo… e poi il buio! – Bellezza fuggitiva
Che con un solo sguardo m’hai chiamato da morte,
non ti vedrò più dunque che al di là della vita,

che altrove, là, lontano – e tardi, e forse mai?
Tu ignori dove vado, io dove sei sparita;
so che t’avrei amata, e so che tu lo sai!


E’ all’interno della città- Parigi-, cuore pulsante del moderno, che scaturiscono le visioni di Baudelaire, fantasie non di evasione,  legate ai mille volti della vita e di essa rivelatrici,  spesso orribilmente deformantisi in incubi e voluttuosi impulsi distruttivi. Le “scene della vita di Parigi” si fanno così allegorie della desolazione e  della corruzione, dell’ambiguo e del promiscuo della civiltà moderna e balenii , insieme,dell’unico, possibile Autentico.


Le seguenti poesie fanno parte di quella sezione dei Fiori del male intitolata Qudri di Parigi

  Il crepuscolo della sera

L’incantevole sera, amica del delitto, ecco venire
A complici passi di lupo. L’orizzonte
Si chiude lentamente come un’immensa alcova,
l’uomo impaziente si trasforma in belva.

Sera, amabile sera, vagheggiata
Da chi può dire ( e non mente ) alle sue braccia:
Quanto lavoro avete fatto! – sera,
conforto d’ogni cuore che un dolore selvaggio azzanna, dalle fronti
dell’operaio che torna, curvo per la fatica, nel suo letto!
Per l’aria intanto, demoni malsani
Si svegliano come gente d’affari, pesantemente, e in volo
Sbattono contro imposte e pensiline.

Fra luci incerte, frastagliate dal vento, nelle strade
Riprendde vita la Prostituzione:
spalanca, formicaio, mille uscite,
scava ovunque, nemico che tenta una sortita,
misteriosi sentieri,
s’agita nelle vene della città di fango
come un avido verme dentro il corpo d’un uomo.
Senti, qua e là, soffiare le cucine,
abbaiare teatri, ronfare le orchestrine;
nelle pensioni, fatte allegre al gioco, si raduna
copia di prostitute e di ruffiani,
e anche i ladri, che non hanno mai pace, presto avranno
il loro solito da fare
a far saltare con dolcezza cassette e serrature
per campare qualche giorno, per vestire le amanti.

Raccogliti, mio cuore, in quell’istante,
non dare ascolto a quel ruggito. E’ l’ora
solenne che i malati peggiorano: la Notte
li prende, cupa, alla gola: per ciascuno
il destino si compie nell’abisso
comune, nella corsia gremita di sospiri. – Più d’uno
non potrà più cercare la minestra odorosa,
la cena accanto al fuoco, a un cuore che ama…

E più ancora son quelli che non han mai saputo
Come è dolce una casa, che non han mai vissuto!




I sette vecchi
Città brulicante, piena di sogni, dove
in pieno giorno gli spettri adescano i passanti!
Nel colosso possente, per le vene
colano, umori vischiosi, i misteri.
 Un mattino che nella triste strada
sembravano le case, per la bruma, più alte
e d’un fi ume in piena fi ngevano le sponde
e, scenario che al cuore dell’attore somiglia,
di sporca, gialla nebbia lo spazio era gremito,
 lungo il corso agitato da pesanti carrette
scendevo, tesi i nervi eroicamente,
discutendo con l’anima già stanca.
Di colpo, un vecchio, che per gialli stracci
somigliava al piovoso di quel cielo,
 tale che di elemosine l’avrebbero coperto
se cattiveria nei suoi occhi non avesse brillato,
mi comparve davanti. Sembrava l’occhio immerso
nel fiele; appuntivano il gelo le sue occhiate;
di lunghi peli, rigida spada, la sua barba
 come quella di Giuda era sporgente.
Non curvo, ma spezzato: la sua schiena
formava con le gambe angolo retto
e, a fornire l’aspetto, suo bastone
gli procurava l’aria e la goffa andatura
d’un quadrupede infermo o d’un ebreo a tre zampe.
Nella neve, nel fango andava, incespicando,
e come, con gli zoccoli, calpestando dei morti,
al mondo, più che indifferente, ostile.
Un altro lo seguiva: barba, schiena, bastone, stracci, sguardo,
 niente lo distingueva dal primo, scaturito,
gemello centenario, da un solo inferno; andavano
spettri barocchi in coppia verso una meta ignota.
In che infame complotto ero dunque caduto,
o che perfido caso mi imitava? Di minuto in minuto
 la moltiplicazione di quel vecchio sinistro
fino a sette m’accadde di contare!
Pensi chi si fa beffe del mio scompiglio, chi
non è scosso da un brivido fraterno,
pensi che avevano, quei sette orridi mostri, tutta l’aria
 d’essere, in tanto decomporsi, eterni!
Avrei, senza morire, potuto contemplare
l’ottavo, implacabile sosia, ironico e fatale,
di se stesso, ripugnante Fenice, padre e figlio?
– Ma al corteggio infernale do’ le spalle.
 Sconvolto come un ubriaco che vede doppio,
vado a casa, mi tiro dietro l’uscio, morto di spavento,
malato e pieno di freddo, torbido di febbre,
piagato dall’assurdo e dal mistero!
Invano cercava, la mia mente, di prendere il timone:
 soffiava via i suoi sforzi la tempesta, e il mio cuore
ballava e ballava, vecchia chiatta, in balìa
di un oceano mostruoso e senza fine!
















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