Post più popolari

giovedì 17 ottobre 2013

Alcune riflessioni di Leopardi e MAnzoni sullo stato della lingua e della letteratura italiana



Riflessioni sulla povertà della lingua e della letteratura in Italia

LEOPARDI

10-11 novembre 1823  ( Sulla lingua e la letteratura in Italia)
            Sono gli anni  del cosiddetto “ silenzio poetico”, in cui Leopardi, sentendo in lui prosciugata l’ispirazione lirica, sta lavorando alle Operette Morali, dialoghi satirici che, con “le armi del ridicolo”, prendono di mira la presunzione antropocentrica dell’uomo moderno.

Tra le cagioni del mancar noi ( e così gli spagnoli) di lingua e letteratura moderna propria, si dee porre, e per prima di tutte, la nullità politica e militare in cui è caduta l’Italia, non meno che la Spagna dal seicento in poi […]
  Crescendo le cose,  la lingua sempre si accresce e vegeta. Ma appunto per la stessa ragione, arrestandosi e mancando la vita, si ferma e impoverisce e quasi muore la lingua, com’è avvenuto infatti dal seicento in qua agli spagnoli ed a noi, le cui lingue di ricchissime e potentissime che furono, si sono andate e si vanno di mano in mano continuamente scemando, restringendo e impoverendo[…] 
  Noi abbiam pochissima conversazione, ma questa pochissima è straniera; conversazione italiana non esiste; quindi è ben naturale che la conversazione d’Italia non sia fatta in lingua italiana, e tutto ciò che ad essa appartiene, e questo è moltissimo, e di generi assai molteplice, e coerente con molte parti della vita, costumi, letteratura ec.  Sia espresso in voci straniere, e non abbia in italiano né parole né modi che lo significhino.


MANZONI

Lettera a Claude Fauriel , Milano, 3 novembre 1821
 ( naturalmente, il testo è scritto in francese)
Manzoni è alle prese con la composizione del Fermo e Lucia


Quanto poi alle difficoltà opposte dalla lingua italiana alla trattazione di questi argomenti, ( cioè i romanzi storici) esse sono reali e grandi, ne convengo; ma penso che derivino da un fatto generale, che purtroppo vale per ogni genere di componimenti. Questo fatto è ( mi guardo intorno per assicurarmi che nessuno mi ascolti ), questo triste fatto è, a mio parere, la povertà della lingua italiana. Quando un francese cerca di rendere il meglio possibile le sue idee, vedete che abbondanza e che varietà di modi trova in questa lingua che va formandosi da tanto tempo e giorno per giorno: in tanti libri, in tante conversazioni, in tanti dibattiti di ogni genere. Così un francese ha una regola per scegliere le sue espressioni, e questa regola la trova nei suoi ricordi, nelle sue abitudini, che gli danno un senso quasi sicuro della conformità del suo stile con lo spirito generale ella sua lingua; non deve consultare il dizionario per sapere se una parola urterà o sarà accettata; si domanda se essa è francese o no, ed è pressochè sicuro della risposta. […]
  Immaginate invece un italiano che, se non è toscano, scrive in una lingua che non ha quasi mai parlato, e che ( anche se è nato nel paese privilegiato ) scrive in una lingua che è parlata da un piccolo numero di abitanti d’Italia, una lingua nella quale non vengono discussi oralmente grandi problemi, una lingua in cui le opere relative alle scienze morali sono assai rare e distanziate nel tempo […]  Manca del tutto a questo povero scrittore quel sentimento per così dire di comunione col suo lettore, quella certezza di maneggiare uno strumento ugualmente conosciuto da entrambi.
[…]
Nel rigore scorbutico e pedantesco dei nostri puristi c’è a mio parere un sentimento di fondo molto ragionevole: è il bisogno di una certa stabilità, di una lingua concordata fra coloro che scrivono q coloro che leggono; credo solo che essi abbiano torto a credere che nella crusca e negli scrittori classici ci stia tutta la lingua; e quando anche ci stesse, avrebbero ancora torto a pretendere che la si cercasse lì, che la si imparasse, che ci se ne servisse; perché è assolutamente impossibile che dai ricordi di una lettura risulti una conoscenza sicura, vasta, applicabile a ogni istante, di tutto il materiale di una lingua.



E veniamo alla Introduzione al Fermo e Lucia ( 1823)

Introduzione al Fermo e Lucia

Che cosa poi significhi scriver bene non credo che alcuno possa definirlo in poche parole. Ecco però alcune delle idee che mi sembra doversi intendere in quella formola.
A bene scrivere bisogna saper scegliere quelle parole e quelle frasi, che per convenzione generale di tutti gli scrittori, e di tutti i favellatori, hanno quel tale significato: parole e frasi che o nate nel popolo, o inventate dagli scrittori, o derivate da un’altra lingua, quando che sia, comunque sono generalmente ricevute e usate. Parole e frasi che sono passate dal discorso negli scritti senza parervi basse, dagli scritti nel discorso senza parervi affettate; e sono generalmente e indifferentemente adoperate all’uno e all’altro uso.
Parole e frasi divenute per qust’uso generale e esclusivo tanto famigliari ad ognuno, che ognuno le riconosca appena udite; dimodochè se un parlatore o uno scrittore per caso adoperi qualcheduno che non sia di quelle, o travolga alcuna di quelle ad un senso diverso dal comune, ognuno se ne avvegga e ne resti offeso; e per provare che quella parola sia barbara, o inopportuna non debba frugare un vocabolario, né ricordarsi che quella parola non è stata usata dai tali e dai tali scrittori, ma gli basti appellarsene alla memoria, all’uso, al sentimento degli altri ascoltatori, i quali fossero mille, converranno tosto del sì o del no.
[…]
  Se in Italia vi sia una lingua che abbia questa condizione, è una questione su la quale non ardisco dire il mio parere. […] Io per me ne conosco una, nella quale ardirei promettermi di parlare, negli argomenti ai quali essa arriva, tanto da stancare il più paziente uditore, e questa lingua, senza vantarmi, è la milanese. Ve n’ha un’altra in Italia, incomparabilmente più bella, più ricca di questa, e di tutte le altre, e che ha materiali per esprimere idee più generali etc. ed è, come ognun sa, la toscana.


A Tommaso Grossi, Firenze 1827

Nel 1827, anno di pubblicazione della I edizione dei Promessi Sposi, Manzoni compie il primo, e sospiratissimo, viaggio a Firenze per la “risciacquatura dei panni in Arno”.

Non passa giorno, ch’io non raccolga accidentalmente nel discorso modi di dre, de’quali io sarei andato a cercare il corrispondente toscano, e non l’avrei trovato, o l’avrei trovato nei libri disusato, ignorato, morto fradicio. Mi ricordo d’essere stato lì lì per fare un baratto onde sostituire archibugiata  a  schioppettata, ch’io non aveva mai avuto il piacere di incontrare né in libri di lingua né nei vocabolarii. Ma guai se mi fossero toccate tutte le schioppettate che ho intese nominare; né ho mai inteso in quel senso dire altro; e avendone chiesto mi fu detto che questo è il termine più comune; che archibugiata non sarebbe strano ma non viene così in su la lingua, e che fucilata è vocabolo militare.

Vogliamo ricordare a questo punto quanto aveva già scritto M.me de Stael nel 1816, in quel suo famoso articolo Sulla utilità delle traduzioni  comparso sulla "Biblioteca italiana", la rivista dei classicisti, che aveva dato il via alle polemiche tra classicisti e romantici?


I dotti e anche i poeti, in quella età  che gli studi risorsero( la Stael si riferisce all'età umanistico-rinascimentale), pensarono a scriver tutti in una medesima lingua, cioè latino, perchè non volevano che ad essere intesi lor bisognasse di venir tradotti. Il che poteva giovare alle scienze, le quali non cercano le grazie dello stile per esprimere i loro concetti. Ma da ciò accadde che che il più degli italiani ignorasse quanta dovizia di scienze abbondasse nel paese loro, perchè il maggior numero di quelli che potevano leggere non sapeva il latino. E d'altra parte, per adoperare questa lingua nelle scienze e nella filosofia bisogna creare vocaboli che ne'romani scrittori ci mancano. Laonde i dotti d'Italia venivano ad usare una lingua che era morta, e non antica. I poeti non uscivano dalle parole e dalla dizione de'classici, e l'Italia, udendo tuttavia sulle rive del Tevere e dell'Arno, e del Sebeto e dell'Adige la favella de'romani ebbe scrittori che furono stimati vicini allo stile di Virgilio e di Orazio, come il Fracastoro, il poliziano, il sannazzaro; dei quali però se non è oggidì spenta la fama, giacciono abbandonate le opere, che dai solo molto eruditi si leggono: tanto è scarsa e breve la gloria fondata sull'imitazione.
[...] E’ opera di natura che la favella, che è compagna e parte continua di nostra vita, sia anteposta a quella che da’libri s’impara, e si trova solamente ne’libri.
[…] Havvi oggidì nella letteratura italiana una classe di eruditi che vanno continuamente razzolando le antiche ceneri per trovarvi forse qualche granello d’oro; ed un’altra di scrittori senza altro capitale che molta fiducia nella lor lingua armoniosa, donde raccozzano suoni voti d’ogni pensiero, esclamazioni, declamazioni, invocazioni che stordiscono gli orecchi, e trovan sordi i cuori altrui, perché non esalarono dal cuore dello scrittore.



giovedì 31 gennaio 2013

Positivismo e Naturalismo in due parole


L’ ETA’ DEL POSITIVISMO



L’età del Positivismo fu un’epoca di grande fiducia nella scienza e nel progresso generato da questa. Le numerose conquiste in campo tecnico-scientifico furono certo all’origine di questa rinnovata disposizione razionalista e scientista. Alla metà del secolo ci furono alcuni importanti studi nell’ambito delle scienze biologiche e naturali: il saggio di Darwin sull’origine della specie  e quelli di Mendel sulle leggi dell’ereditarietà. Anche grazie a questi studi venne a determinarsi  con forza il convincimento che alle scienze umane  si potessero   applicare gli stessi metodi delle discipline più propriamente scientifiche: l’analisi “positiva”, cioè certa e documentata di ogni fenomeno della realtà vivente considerato  nella sua rete di rapporti con gli altri fatti doveva garantire la conoscenza dei suoi meccanismi di funzionamento e la possibilità, quindi, di intervenire operativamente su di essi per migliorare la realtà. Era una prospettiva progressista e pragmatica, antimetafisica e a anti-idealistica.



Ripercussioni e affinità ci furono anche in ambito letterario. Il romanzo, soprattutto, già apertosi con Balzac e Flaubert a una dimensione di più integrale realismo cominciò a misurarsi con il nuovo paradigma epistemologico, cercando di farsi “studio” ( la grande parola d’ordine di questa epoca) dell’uomo e della società. Nacque così il Naturalismo francese che, rifacendosi soprattutto alle teorie di Flaubert sulla impersonalità dell’arte perseguì un ideale di rappresentazione oggettiva, distaccata della realtà, scrutata anche in quegli aspetti che finora erano stati banditi dalla rappresentazione artistica: il brutto, il sordido, il malato. Il vero teorico del romanzo naturalista fu Emile Zola ideatore del “romanzo sperimentale”, di un romanzo, cioè, che doveva costruirsi secondo gli stessi metodi della scienza, partendo dalla osservazione diretta della realtà, raccogliendo dati, collegandoli secondo una relazione deterministica di causa-effetto. In Zola era forte l’idea che in questo modo il romanziere potesse mettere il luce i “meccanismi” ( altra parola d’ordine)  alla base dei comportamenti individuale e sociali e una volta diagnosticati i mali trovare correttivi e rimedi per contribuire al miglioramento della società.


 LEGGI SUL BLOG  IL POST DEL 15 FEBBRAIO 2012 “ COME LAVORA ZOLA” : UNA INTERVISTA DI E.DE AMICIS A ZOLA


LEGGI ANCHE, QUI SOTTO, LA PREFAZIONE SCRITTA DA ZOLA AL ROMANZO  LA FORTUNA DEI ROUGON, PRIMO DEL CICLO DEI ROUGON-MACQUART E POI CONFRONTALA CON L’INTRODUZIONE AI MALAVOGLIA DI VERGA.


Nel 1870 Zola pubblica La fortuna dei Rougon, primo di un ciclo di romanzi a cui lavorerà per i vent’anni successivi.
Il ciclo dei Rougon-Macquart è tenuto insieme dal filo  dei caratteri ereditari che si trasmettono nei due rami familiari dei Rougon e dei Macquart.  Zola si rifà dunque alle dottrine di medicina sperimentale e di fisologia che in quegli anni andavano acquisendo nuove conoscenze sulla trasmissione dei caratteri ereditari.
Un intero ceppo familiare, di cui Zola costruisce accuratamente l’albero genealogico, risulta segnato dalla patologia originaria risalente alla contadina Adelaide Fouquet, moglie di Rougon e amante di MAcquart, un contrabbandiere abbruttito dall’alcool.


E.Zola, Prefazione a La Fortuna dei Rougon


Io voglio spiegare come una famiglia, un piccolo gruppo di persone, si comporta in una società, sviluppandosi per dar vita a dieci, a venti individui che, a prima vista sembrano profondamente diversi, ma che, analizzati, si rivelano intimamente connessi gli uni agli altri. Come in fisica la gravità, così anche l’eredità ha le sue leggi.
  Cercherò di scoprire e di seguire, tenendo conto della duplice azione dei temperamenti individuali e degli ambienti sociali, il filo che conduce con certezza matematica da un uomo a un altro uomo. E quando terrò in mano tutti i fili, quando avrò studiato a fondo tutto un gruppo sociale, farò vedere questo gruppo in azione come forza motrice di un’epoca storica […]
I Rougon Macquart – il gruppo, la famiglia che mi propongo di studiare – ha, come tratto caratteristico l’eccesso degli appetiti, l’ampia tendenza ascensionale della nostra epoca che tende freneticamente al piacere. Dal punto di vista fisiologico, si tratta del lento succedersi degli accidenti nervosi e sanguigni che si rivelano in una stirpe in conseguenza di un’originaria lesione organica, e che in ciascuno degli individui di questa specie determinano, a seconda dei diversi ambienti, i sentimenti i desideri, le passioni […] Dal punto di vista storico, questi individui partono dal popolo, s’irradiano in tutta la società contemporanea, raggiungono tutte le posizioni in seguito a quell’impulso essenzialmente moderno che spinge le classi inferiori a salire entro la società, e costituiscono così la storia del Secondo Impero.


venerdì 11 gennaio 2013

BAUDELAIRE



BAUDELAIRE

Lo straniero

“A chi vuoi più bene, uomo enigmatico, dì: a tuo padre, alla madre, alla sorella o al fratello?
“non ho padre, né madre, né sorella, né fratello”
“ Ai tuoi amici?
“Voi adoperate ora un vocabolo che fino a tutt’oggi mi è rimasto di significato ignoto
“Alla patria?
“Ignoro sotto quale latitudine sia posta
“Alla bellezza?
“Volentieri l’amerei dea e immortale
“All’oro?
“ L’odio quanto voi odiate Dio
“ Oh, ma dunque, che piacce a te, straniero singolarissimo?
“ Mi piacciono le nuvole – le nuvole che passano, laggiù, laggiù, le nuvole meravigliose.


La folla è così intrinseca alla poesia di Baudelaire che non c’è di essa una vera e propria rappresentazione, la poesia la implica, se ne abbevera. In  A una passante,
non una parola che chiaramente indichi  la folla, eppure tutto il processo poetico riposa su di essa, è sullo sfondo della città caotica, in continuo, confuso fermento che si staglia per un attimo –epifania metropolitana – questa figura ignota di donna, chiusa nel mistero della sua vita e del suo dolore, con cui scatta la consonanza del poeta, la donna  che assurge a simbolo dell’amore sognato, dell’incontro salvifico ma impossibile.

A una passante

Ero per strada, in mezzo al suo clamore,
esile e alta, in lutto, maestà di dolore,
una donna è passata. Con un gesto sovrano
l’orlo della sua veste sollevò con la mano.

Era agile e fiera, le sue gambe eran quelle
D’una scultura antica. Instupidito
Bevevo nei suoi occhi vividi di tempesta
La dolcezza che incanta e il piacere che uccide.

Un lampo… e poi il buio! – Bellezza fuggitiva
Che con un solo sguardo m’hai chiamato da morte,
non ti vedrò più dunque che al di là della vita,

che altrove, là, lontano – e tardi, e forse mai?
Tu ignori dove vado, io dove sei sparita;
so che t’avrei amata, e so che tu lo sai!


E’ all’interno della città- Parigi-, cuore pulsante del moderno, che scaturiscono le visioni di Baudelaire, fantasie non di evasione,  legate ai mille volti della vita e di essa rivelatrici,  spesso orribilmente deformantisi in incubi e voluttuosi impulsi distruttivi. Le “scene della vita di Parigi” si fanno così allegorie della desolazione e  della corruzione, dell’ambiguo e del promiscuo della civiltà moderna e balenii , insieme,dell’unico, possibile Autentico.


Le seguenti poesie fanno parte di quella sezione dei Fiori del male intitolata Qudri di Parigi

  Il crepuscolo della sera

L’incantevole sera, amica del delitto, ecco venire
A complici passi di lupo. L’orizzonte
Si chiude lentamente come un’immensa alcova,
l’uomo impaziente si trasforma in belva.

Sera, amabile sera, vagheggiata
Da chi può dire ( e non mente ) alle sue braccia:
Quanto lavoro avete fatto! – sera,
conforto d’ogni cuore che un dolore selvaggio azzanna, dalle fronti
dell’operaio che torna, curvo per la fatica, nel suo letto!
Per l’aria intanto, demoni malsani
Si svegliano come gente d’affari, pesantemente, e in volo
Sbattono contro imposte e pensiline.

Fra luci incerte, frastagliate dal vento, nelle strade
Riprendde vita la Prostituzione:
spalanca, formicaio, mille uscite,
scava ovunque, nemico che tenta una sortita,
misteriosi sentieri,
s’agita nelle vene della città di fango
come un avido verme dentro il corpo d’un uomo.
Senti, qua e là, soffiare le cucine,
abbaiare teatri, ronfare le orchestrine;
nelle pensioni, fatte allegre al gioco, si raduna
copia di prostitute e di ruffiani,
e anche i ladri, che non hanno mai pace, presto avranno
il loro solito da fare
a far saltare con dolcezza cassette e serrature
per campare qualche giorno, per vestire le amanti.

Raccogliti, mio cuore, in quell’istante,
non dare ascolto a quel ruggito. E’ l’ora
solenne che i malati peggiorano: la Notte
li prende, cupa, alla gola: per ciascuno
il destino si compie nell’abisso
comune, nella corsia gremita di sospiri. – Più d’uno
non potrà più cercare la minestra odorosa,
la cena accanto al fuoco, a un cuore che ama…

E più ancora son quelli che non han mai saputo
Come è dolce una casa, che non han mai vissuto!




I sette vecchi
Città brulicante, piena di sogni, dove
in pieno giorno gli spettri adescano i passanti!
Nel colosso possente, per le vene
colano, umori vischiosi, i misteri.
 Un mattino che nella triste strada
sembravano le case, per la bruma, più alte
e d’un fi ume in piena fi ngevano le sponde
e, scenario che al cuore dell’attore somiglia,
di sporca, gialla nebbia lo spazio era gremito,
 lungo il corso agitato da pesanti carrette
scendevo, tesi i nervi eroicamente,
discutendo con l’anima già stanca.
Di colpo, un vecchio, che per gialli stracci
somigliava al piovoso di quel cielo,
 tale che di elemosine l’avrebbero coperto
se cattiveria nei suoi occhi non avesse brillato,
mi comparve davanti. Sembrava l’occhio immerso
nel fiele; appuntivano il gelo le sue occhiate;
di lunghi peli, rigida spada, la sua barba
 come quella di Giuda era sporgente.
Non curvo, ma spezzato: la sua schiena
formava con le gambe angolo retto
e, a fornire l’aspetto, suo bastone
gli procurava l’aria e la goffa andatura
d’un quadrupede infermo o d’un ebreo a tre zampe.
Nella neve, nel fango andava, incespicando,
e come, con gli zoccoli, calpestando dei morti,
al mondo, più che indifferente, ostile.
Un altro lo seguiva: barba, schiena, bastone, stracci, sguardo,
 niente lo distingueva dal primo, scaturito,
gemello centenario, da un solo inferno; andavano
spettri barocchi in coppia verso una meta ignota.
In che infame complotto ero dunque caduto,
o che perfido caso mi imitava? Di minuto in minuto
 la moltiplicazione di quel vecchio sinistro
fino a sette m’accadde di contare!
Pensi chi si fa beffe del mio scompiglio, chi
non è scosso da un brivido fraterno,
pensi che avevano, quei sette orridi mostri, tutta l’aria
 d’essere, in tanto decomporsi, eterni!
Avrei, senza morire, potuto contemplare
l’ottavo, implacabile sosia, ironico e fatale,
di se stesso, ripugnante Fenice, padre e figlio?
– Ma al corteggio infernale do’ le spalle.
 Sconvolto come un ubriaco che vede doppio,
vado a casa, mi tiro dietro l’uscio, morto di spavento,
malato e pieno di freddo, torbido di febbre,
piagato dall’assurdo e dal mistero!
Invano cercava, la mia mente, di prendere il timone:
 soffiava via i suoi sforzi la tempesta, e il mio cuore
ballava e ballava, vecchia chiatta, in balìa
di un oceano mostruoso e senza fine!
















venerdì 4 gennaio 2013

Per i ragazzi di 3 e...Buon Anno a tutti!




IL ROMANZO REALISTA EUROPEO

Il “realismo moderno” va collegato con l’atteggiamento cartesiano e galileiano che, nel XVII sec. cambiò radicalmente lo statuto epistemologico tradizionale: a una concezione del sapere che muoveva dalle idee generali per comprendere e dare forma al mondo si venne infatti sostituendo una disposizione “scientifica” che prendeva in considerazione individui particolari in situazioni particolari per poi, di lì, indagarne le relazioni dinamiche con la realtà.
  Il romanzo realista “borghese” si sviluppò a partire dagli anni ’30 in Francia con Stendhal e Balzac.
Cosa c’è di nuovo? Per prima cosa, sul piano del contenuto, la rappresentazione della realtà contemporanea. Il romanzo realista nacque infatti dall’esigenza di capire, e dunque di raffigurare, il mondo contemporaneo che si andava rapidamente trasformando in senso economico,sociale e politico. E’ questo il tempo di affermazione trionfante della borghesia, forza egemone in ogni ambito della vita sia economica che politica, che imporrà il suo modo di vivere, la sua etica produttiva e il suo sistema di valori.
Sul piano delle tecniche narrative il romanzo realista è caratterizzato da una narrazione onnisciente che mette in scena i punti di vista dei diversi personaggi ma che ancora si riserva la regia del racconto. Le cose cambieranno con Flaubert, inventore della cosiddetta “ impersonalità narrativa”, di una rappresentazione cioè distaccata, nella quale la voce narrante rinuncia a qualunque forma di commento e giudizio dall’esterno.
Un altro elemento di novità è costituito dalla larghissima presenza delle descrizioni, non più concepite come elemento esornativo ma come parte integrante del racconto, per delineare gli ambienti e i costumi della società su cui si appunta l’indagine.
Con  Il Rosso e il Nero di Stendhal per la prima volta il romanzo attinge la sua materia narrativa dalla cronaca: Stendhal si ispira infatti a un fatto di sangue accaduto in una regione della Francia in quegli anni. In seguito, saranno ancora gli scrittori naturalisti a introdurre i faits divers( fatti di cronaca) nel romanzo. Anche questa è una prova dell’attenzione alla viva realtà contemporanea manifestata dal romanzo realista borghese.
Negli anni ’30 cominciò la sua opera narrativa anche Balzac. Egli volle comprendere tutti i suoi romanzi all’interno di una compagine unitaria alla quale diedde nome Comedie humaine. Sua intenzione era quella di raffigurare tutte, , ma proprio tutte , le forme e i costumi della vita sociale francese dei suoi tempi. La Comedie humaine si articola dunque in parti, fra cui Scene della vita privata, Scene della vita di provincia, Scene della vita politica, Scene della vita militare.
 Un aspetto comune di questi romanzi è la rappresentazione dell’età della Restaurazione come un’epoca grigia e arida, dominata dal cinismo e dall’ambizione, nella quale si spengono i sogni eroici e gli ideali della grande stagione romantica.

Leggete i seguenti brani: nel primo, il giovane Luciene, giunto dalla provincia a Parigi pieno di sogni,  in cerca di gloria letteraria,  si scontra con la desolazione di una realtà dominata dalle sirene del denaro, del successo effimero, del lusso vorace che consuma fortune e destini.
  Nel secondo, il celebre Perdita d’aureola, Baudelaire  dichiara lo iato irrimediabile prodottosi nel mondo moderno tra la società borghese, dominata da meccanismi di produttività e mercificazione, e l’artista, privato del suo ruolo tradizionale di “vate”.










Balzac, da Illusioni perdute


Libri e giornali.

“Mio caro” disse gravemente Lousteau guardando la punta degli stivali che Luciene si era portato da Angouléme e che finiva di consumare “ vi consiglio di scurire i vostri stivali con l’inchiostro, per risparmiare la cera, di fare delle vostre penne degli stuzzicadenti, per darvi l’aria di chi ha pranzato quando andate a passeggio. Diventate praticante di un ufficiale giudiziario, se avete cuore, commesso, se avete piombo nelle reni, o soldato se vi piace la musica militare. Avete la stoffa di tre poeti; ma prima di avere sfondato, avrete sei volte il tempo di morire di fame, se per vivere contate sui prodotti della vostra poesia. Dunque le vostre intenzioni, stando ai vostri troppo giovani discorsi, sono di battere moneta con il vostro calamaio. non giudico la vostra poesia, è di gran lunga superiore a tutte le poesie che ingombrano i depositi dei librai. Quegli eleganti usignoli, venduti un po’ più cari degli altri a causa ella loro carta velina, vanno quasi tutti ad abbattersi sulle rive della Senna, dove potete andare a studiare i loro canti, se un giorno avrete voglia di fare un istruttivo pellegrinaggio sul lungofiume di Parigi, dopo l’esposizione di papà Jerome, al ponte di Notre-Dame, fino al Pont Royal. Incontrerete là tutti i saggi poetici, le Ispirazioni, le Elevazioni,l gli Inni, i canti, le Ballate, le Odi, insomma tutte le covate schiuse negli ultimi sette anni, muse coperte di polvere, schizzate di fango dalle carrozze. non conoscete nessuno, non avete accesso a nessun giornale[…] Mio povero ragazzo, anch’io sono arrivato come voi, con il cuore pieno di illusioni, spinto dall’amore per l’arte, portato dall’invincibile slancio verso la gloria. La mia esaltazione, ora repressa, la mia prima effervescenza, mi nascondevano il meccanismo del mondo; ho dovuto vederlo, sbattere in ogni sua ruota, urtare nei perni, ingrassarmi con l’olio, sentire il ticchettio delle catene e dei volani. Sarete necessariamente coinvolto in lotte orribili in cui bisognerà battersi sistematicamente per non essere abbandonato dai propri compagni. Queste ignobili lotte disincantano l’anima, depravano il cuore e stancano in pura perdita. I successi  montati o meritati, ecco quello che la platea applaude[…] Dopo molti tentativi, dopo aver scritto un romanzo anonimo pagato duecento franchi da Doguereau, che  non ci ha guadagnato granchè, mi è stato chiaro che solo il giornalismo poteva nutrirmi ”.

Da due ore, alle orecchie di Luciene, tutto si risolveva con il denaro. A teatro come nell’editoria, nell’editoria  come nel giornalismo, di arte o di gloria non si parlava. Mentre l’orchestra suonava l’ouverture, non potè fare a meno di opporre agli applausi e ai fischi della platea in subbuglio, le scene di poesia calma e pura che aveva gustato nella stamperia di David, quando tutti e due vedevano le meraviglie dell’arte, i nobili trionfi del genio, la gloria dalle bianche ali. Ricordandosi delle serate del Cenacolo, una lacrima brillò negli occhi del poeta.
“ Che avete?” gli disse Etienne Lousteau.
“Vedo la poesia in un letamaio” disse
“ Ah, mio caro, avete ancora delle illusioni”… “ lo vedete quel ragazzo goffo, senza né spirito né talento, ma avido, che vuole il successo a ogni costo, e abile negli affari, ebbene, esistono lettere in cui parecchi geni in erba sono in ginocchio davanti a lui per cento franchi.”
Una contrazione causata dal disgusto strinse il cuore di Luciene.
“ Piuttosto morire” disse.
“ Piuttosto vivere” gli rispose Etienne


L’influenza e il potere dei giornali è solo alla sua aurora” disse Finot “ il giornalismo è nell’infanzia, crescerà. Tutto fra dieci anni a partire da oggi, sarà di dominio pubblico.  Il pensiero illuminerà tutto…”
“deturperà tutto” disse Blondet interrompendo Finot.
“E’ una parola” disse Claude Mignon.
“ Farà i re” disse Lousteu.
“ E disferà le monarchie” disse il diplomatico.
 “Dunque”, disse Blondet, “ se la stampa non esistesse, bisognerebbe inventarla; ma eccola qua, ci darà da vivere”
“ Blondet ha ragione” disse Claude Mignon “Il giornale, piuttosto che essere un sacerdozio, è diventato uno strumento dei partiti; da strumento si è fatto commercio; e come tutti i commerci, non ha fede né legge. Ogni giornale è, come dice Blondet, una bottega in cui si vendono al pubblico parole del colore che vuole.  Se esistesse un giornale di gobbi, proverebbe mattina e sera la bellezza, la bontà, la necessità dei gobbi. Un giornale non è più fatto per chiarire ma per blandire le opinioni. Così, tutti giornali saranno allo steso tempo vili, ipocriti, infami, mentitori e assassini; uccideranno le idee, i sistemi, gli uomini, e per questa stessa ragione fioriranno.”




C. Baudelaire, Perdita d’aureola.

“Ehilà! voi qui mio caro? voi in un postaccio? voi, il bevitor di quintessenza, voi, il mangiator d’ambrosia? C’è da essere stupito, davvero.
“ Mio caro, sapete il terrore che ho dei cavalli e delle vetture. Prima, come attraversavo in gran fretta il viale, e saltellavo nella mota, attraverso quel mobile caos dove la morte arriva galoppando da tutte le parti contemporaneamente, la mia aureola, in un brusco movimento, m’è scivolata dal capo nel fango della massicciata. Non ho avuto il coraggio di raccattarla. Ho ritenuto meno spiacevole perdere le mie insegne, che non farmi rompere l’ossa. E poi, mi sono detto, non ogni male viene per nuocere. Ora posso girare in incognito, fare delle bassezze e darmi alla crapula come i semplici mortali. Ed eccomi in tutto simile a voi, come vedete!”
“Dovreste almeno mettere un annuncio riguardo all’aureola, o farla richiedere dal commissario”.
“Assolutamente no! Mi trovo bene qui. Voi, voi solo m’avete riconosciuto. Del resto, la dignità m’è venuta a noia. Poi, mi piace il pensiero che qualche poetastro la raccatterà e se ne cingerà sfacciatamente. Far felice uno, che piacere! e soprattutto, felice uno che mi farà ridere! Pensate a X, o a Z! Sarà proprio buffo, no?”





giovedì 8 novembre 2012

La Ginestra di Leopardi



La Ginestra di Leopardi

Ultimo, solenne e vibrante componimento di Leopardi ( 1836), La Ginestra è stata definita la più intensa espressione del "titanismo" leopardiano  (Walter Binni), cioè di quell'atteggiamento eroico dell'uomo che, rifiutati gli inganni consolatori, non si sottrae alle dolorose verità materialiste ma da queste sa ricavare piuttosto un insegnamento di solidarietà rivolto a tutti gli uomini, accomunati dallo stesso destino.
 Prima di tutto questo, però, La Ginestra è una romanticissima poesia di contemplazione di paesaggi: paesaggi di rovine, di " deserti", di "campi cosparsi di ceneri infeconde" su cui appena aleggia il "profumo " consolatore della "gentile" ginestra ( strofa 1);  e paesaggi sconfinati, immensi  quali sono quelli dei cieli notturni con i loro " remoti nodi quasi di stelle" a cui si fissano, smarriti e sopraffatti , gli sguardi degli uomini  (strofa 4). Sono queste le immagini che il "pensiero poetante" innalza al valore di simbolo, oggettivando in esse la grandiosità della natura e la piccolezza dell'uomo. 
E guardiamo al microscopio, allora, le antitesi lessicali della prima strofa, che si apre sul potente paesaggio dominato dal  "formidabil monte/sterminator Vesevo".  Ai "campi cosparsi/ di  ceneri infeconde", all ' "impietrata lava", alla "ruina" che tutto  "intorno involve", all' " altero monte/ dall'ignea bocca", si oppone la presenza umile della "odorata ginestra", unica presenza di vita, solitaria e tenace. E' l'umile "fior gentile" che " amante" dei luoghi solitari," compagna" del  destino infelice, "abbellisce" l' aspro paesaggio vulcanico ed " esala un "profumo/ che il deserto consola". Eccoli qui i due personaggi tragici, uno di fronte all'altro, l'uno portatore di morte e rovina, l'altra  pietosa e dolce presenza consolatrice.
La seconda strofa  si apre su toni declamatori con quell'imperativo " Qui mira e qui ti specchia/ secol superbo e sciocco"  che chiama direttamente in causa il destinatario primo del componimento leopardiano, la società ottocentesca stoltamente superba nella sua fede progressista e che il poeta invita ad affacciarsi su quello scenario di arida pietrosità, epifania demistificante di ogni illusione antropocentrica. Solo progredendo sulla strada aperta innanzi dai lumi settecenteschi e rifiutando gli inganni della ragione, come già diceva il Tristano delle Operette morali “ si cresce in civiltà”.
  I toni ragionativi continuano nella terza strofa, in cui Leopardi mette a confronto la stoltezza di chi promette glorie illustri e felicità a una umanità che  “un’onda /di mar commosso”, “ un fiato/ d’aura maligna”, “ un sotterraneo crollo” possono distruggere in un momento con la grandezza, davvero eroica, di chi sa guardare in faccia il proprio arduo destino e virilmente soffrire ( “ Nobil natura è quella/ che a sollevar s’ardisce/ gli occhi mortali incontra/al comun fato e che con franca lingua/ nulla al ver detraendo/ confessa il mal che ci fu dato in sorte, e il basso stato e frale” ).

Qui si introduce la parte finalmente construens della riflessione leopardiana e il superamento delle sconsolate conclusioni di Tristano. Rivediamone un momento alcuni passaggi. E’ necessario, perché La ginestra, senza rinnegare le posizioni dell’ultima Operetta morale ne costituisce però un superamento, essendo questa volta “la pietà” a prendere il posto del “riso” con cui Tristano si prendeva gioco degli uomini, preferendo ai loro puerili inganni “tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa ma vera”. Era una solitudine sdegnosa ed eroica quella nella quale si chiudeva Tristano, che scandiva il suo credo esistenziale nella enunciazione perentoria della paratassi:
“Calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogni inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa ma vera”.
Cosa c’è in più, dunque, ne La ginestra? C’è la conclusione che l’uomo è innocente e che solo un amore fraterno, generato dalla coscienza della comune fragilità, una solidarietà amica che sappia stringere “ i mortali in social catena” contro l’unica nemica, può rendere più sopportabile la vita non accrescendo al male della natura il male che l’uomo fa all’uomo.
 Nella 4^ strofa ritorna una poesia contemplativa che sembra recuperare situazioni e toni “ idilliaci”  ( “ seggo la notte… veggo dall’alto fiammeggiar le stelle… e quando miro…al pensier mio / che sembri allora”) salvo poi declinarli in una sintassi ardua e vertiginosa come vertiginoso è quel cielo profondo, infinito in cui si inoltra e smarrisce lo sguardo leopardiano.
Straordinariamente densi di allusioni ed echi letterari questi versi, come se ci fosse bisogno di sprofondare anche negli altrettanto immensi cieli poetici per dare slancio alla propria domanda esistenziale riaccordandola con quella di tutti i secoli.
Vediamo meglio. Echi pascaliani si levano dai versie poi che gli occhi a quelle luci appunto/ ch’a lor sembrano un punto/ e sono immense, in guisa/ che un punto a petto lor son terra e mare/ veracemente; a cui l’uomo non pur, ma questo/ globo ove l’uomo è nulla,/ sconosciuto è del tutto” . Confrontiamoli con i Pensieri di Pascal:
 L’uomo contempli dunque la natura tutta intera nella sua piena e alta maestà…la terra gli apparisca come un punto in confronto all’immenso giro che quell’astro ( il sole) descrive…E se a questo punto la nostra vista si arresterà, l’immaginazione vada oltre…Che cos’è l’uomo nell’infinito? )
Non è tutto. L’immagine della “terra come punto” è consueta nel topos della contemplazione della terra dall’alto, presente in Cicerone, Seneca, Dante come, dopo Leopardi, in Pascoli.
Confronta bene:
Cicerone, Somnium Scipionis “ Erant autem eae stellae quae numquam ex hoc loco vidimus, et eae magnitudines omnium quas esse numquam suspicati sumus… Iam vero ipsa terra mihi parva visa est, ut me imperii nostri, quo quasi punctum eius attingimus, paeniteret
Seneca, Naturales Quaestiones, Prefazione, Punctum est istud in quo navigatis, in quo bellatis, in quo regna disponitis… sursum ingentia spatia sunt”
Dante, Paradiso, XXII, “Rimira in giù, e vedi quanto mondo/ sotto li piewdi già esser ti fei/…/ Col viso ritornai per tutte quante/le sette spere, e vidi questo globo/ tal ch’io sorrisi del suo vil sembiante/…/ L’aiuola che ci fa tanto feroci/… /tutta m’apparve da’colli a le foci”.  (da notare che la parola “aiuola” è calco dal latino “areola” = piccola area, spazio esiguo e limitato più che “giardino”
Perfino gli accenti dei Salmi sembrano ritrovarsi, seppure naturalmente in chiave antiprovvidenziale: anche qui, confronta i vv. 174-185
“e quando miro/ quegli ancor più senz’alcun fin remoti/ nodi quasi di stelle/ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo/ e non la terra sol, ma tutte in uno, /del numero infinito e de la mole/ con l’aureo sole insiem, le nostre stelle/ o sono ignote, o così paion come/ essi alla terra, un punto/di luce nebulosa; al pensier mio/ che sembri allora o prole dell’uomo?
Con  Salmo 8 Se guardo il Cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu vi hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi?”
Come partendo dalle prime e più percepibili stelle lo sguardo di Leopardi si spinge sempre più a fondo nell’immensità del cielo e del pulviscolo sidereo, altrettanto sembra che dentro una reminiscenza poetica egli ne rintracci un’altra e un’altra e un’altra ancora: gli intrecci infiniti delle parole dei poeti




giovedì 1 novembre 2012

Sulla lingua per il romanzo



Lettera a Claude Fauriel ( naturalmente, il testo è scritto in francese)
Milano, 3 novembre 1821


Per indicarvi in breve la mia idea fondamentale circa  romanzi storici, e mettervi così sulla via  per rettificarla, vi dirò che concepisco tali romanzi come la rappresentazione di una data condizione della società fatta attraverso vicende e caratteri così simili alla realtà che essa possa apparire una storia vera appena appena scoperta. Quando sono ad essa mescolati avvenimenti e personaggi storici, credo che si debba rappresentarli nel modo più rigorosamente storico: perciò, ad esempio, in Ivanhoe, Riccardo cuor di leone mi sembra figura difettosa. Quanto poi alle difficoltà opposte dalla lingua italiana alla trattazione di questi argomenti, esse sono reali e grandi, ne convengo; ma penso che derivino da un fatto generale, che purtroppo vale per ogni genere di componimenti. Questo fatto è ( mi guardo intorno per assicurarmi che nessuno mi ascolti ), questo triste fatto è, a mio parere, la povertà della lingua italiana. Quando un francese cerca di rendere il meglio possibile le sue idee, vedete che abbondanza e che varietà di modi trova in questa lingua che va formandosi da tanto tempo e giorno per giorno: in tanti libri, in tante conversazioni, in tanti dibattiti di ogni genere. Così un francese ha una regola per scegliere le sue espressioni, e questa regola la trova nei suoi ricordi, nelle sue abitudini, che gli danno un senso quasi sicuro della conformità del suo stile con lo spirito generale ella sua lingua; non deve consultare il dizionario per sapere se una parola urterà o sarà accettata; si domanda se essa è francese o no, ed è pressochè sicuro della risposta. […]
  Immaginate invece un italiano che, se non è toscano, scrive in una lingua che non ha quasi mai parlato, e che ( anche se è nato nel paese privilegiato ) scrive in una lingua che è parlata da un piccolo numero di abitanti d’Italia, una lingua nella quale non vengono discussi oralmente grandi problemi, una lingua in cui le opere relative alle scienze morali sono assai rare e distanziate nel tempo […]  Manca del tutto a questo povero scrittore quel sentimento per così dire di comunione col suo lettore, quella certezza di maneggiare uno strumento ugualmente conosciuto da entrambi.
 Supponiamo che egli richieda se la frase che ha appeno scritto è italiana: come può dare una risposta sicura a una domanda che non è precisa? Perché, che cosa significa italiano in questo senso? Secondo alcuni quel che è consegnato nella Crusca, secondo altri quello che è capito in tutta Italia, o dalle classi colte; i più non applicano a questa parola alcuna idea precisa. […]
Nel rigore scorbutico e pedantesco dei nostri puristi c’è a mio parere un sentimento di fondo molto ragionevole: è il bisogno di una certa stabilità, di una lingua concordata fra coloro che scrivono q coloro che leggono; credo solo che essi abbiano torto a credere che nella crusca e negli scrittori classici ci stia tutta la lingua; e quando anche ci stesse, avrebbero ancora torto a pretendere che la si cercasse lì, che la si imparasse, che ci se ne servisse; perché è assolutamente impossibile che dai ricordi di una lettura risulti una conoscenza sicura, vasta, applicabile a ogni istante, di tutto il materiale di una lingua. Ditemi ora come deve comportarsi un italiano che, non sapendo far altro, vuole scrivere. […
Penso con voi che scrivere bene un romanzo in italiano sia una delle cose più difficili, ma questa difficoltà la vedo, benché in grado minore, anche in altri generi letterari; e con la coscienza, non completa ma assai sicura, che ho dell’inadeguatezza dell’artefice, ho anche la coscienza quasi altrettanto sicura dei limiti che provengono dalla materia.

lunedì 29 ottobre 2012

Sui Promessi Sposi



Qualche osservazione sul I capitolo dei Promessi Sposi e qualcos’altro




L’inizio dell’azione è collocata il 7 novembre del 1628.
Dopo avere fissato Don Abbondio, nella sua abituale passeggiata, “ per una di queste stradette”, e avere posto nel suo campo visivo i due bravi che lo stanno aspettando,  il racconto viene già interrotto da una prima digressione nella quale si dà conto delle Gride pubblicate contro i Bravi.
La prima grida menzionata è del 1583; ne vengono poi subito dopo ricordate altre (1593, 1598, 1600, 1612, 1618).
Sono tutte le disposizioni di legge che, come si vede dalla successione delle date, restano inevase perché il potere legale non vuole operare realmente contro il potere reale dei vari signori e signorotti. Quelle delle gride sono dunque parole vuote, lettera morta.
Allorché la narrazione riprende, con il primo scambio di battute fra il curato e i due bravi,  che sono anche le prime pronunciate da personaggi del romanzo  : ( “ Signor curato” disse un di que’due, piantandogli gli occhi in faccia. “ Cosa comanda?” rispose subito don Abbondio), ci viene subito mostrato quali sono i meccanismi che regolano i rapporti sociali e qual è il rapporto reale fra il diritto e la forza.
  Nella succitata digressione si esercita l’ironia del narratore che, nello stesso momento in cui riferisce le parole della legge vi introduce la sua intenzione comunicativa “ altra” che deforma grottescamente la prima, svelandone la vuota ridondanza.
All’udire parole di un tanto signore, così gagliarde e sicure, e accompagnate da tali ordini, viene una gran voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre. Ma la testimonianza di un signore non meno autorevole ci obbliga a credere tutto il contrario.”
Ed ecco nuova grida dell’ “Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Pietro Enriques de Acevedo, Conte di Fuentes, Capitano e Governatore dello Stato di Milano” , a proposito della quale così commenta il narratore:
Convien credere però che non ci si mettesse con tutta quella buona voglia che sapeva impiegare nell’ordir cabale, e nel suscitar nemici al suo gran nemico Enrico IV; giacchè per questa parte, la storia attesta come riuscisse ad armare contro quel re il duca di Savoia, a cui fece perder più d’una città; come riuscisse a far congiurare il duca di Biron, a cui fece perdere la testa; ma per ciò che riguarda quel seme tanto pernicioso de’bravi, certo è che esso continuava a germogliare il 22 settembre dell’anno 1612”

Attraverso il procedimento dell’ironia viene creata una distanza critica tra l’oggetto rappresentato( il 600)  e lo sguardo su di esso( il narratore ottocentesco), e ognuno è presentato nella sua autonomia di realtà. Il romanzo orchestra in questo modo una pluralità di voci che sono altrettanti “punti di vista sul mondo” .
Abbiamo visto sopra una partitura doppia divisa tra la parola- documento ( le grida) e la parola- commento ( il narratore), che trasforma in problema la certezza dei fatti.
 
Ma la dialogicità opera anche a distanza, nelle parole dei personaggi adattate a referenti diversi,  in una relazione tra le parole e le cose  variabile a seconda delle esperienze e dei vissuti individuali. Così, per esempio, quelle che l’Anonimo definiva in base all’appartenenza sociale “genti meccaniche e di picciol affare” , Renzo, Lucia, Agnese, sono i “ poveri cari tribolati” che padre Cristoforo difende al cospetto del più forte, gridandone i diritti nel nome di Dio:
 “ Non s’ostini a negare una giustizia così facile e così dovuta a de’poverelli. Pensi che Dio ha sempre gli occhi sopra di loro, e che le loro grida, i loro gemiti sono ascoltati lassù.” (Colloquio fra Don Rodrigo e Padre Cristoforo VI )





E saranno la “ gente di nessuno” nella sprezzante definizione di don Rodrigo, sicuro dell’impunità quand’anche dovesse mai esserci qualche sospetto su di lui a proposito del rapimento di Lucia:

.“ In quanto ai sospetti – pensava- me ne rido. Vorrei un po’sapere chi sarà quel voglioso che venga quassù a vedere se c’è o non c’è una ragazza. Vena, venga quel tanghero, che sarà  ben ricevuto. Venga il frate, venga. La vecchia? Vada a Bergamo la vecchia. La giustizia? Poh, la giustizia!. Il podestà non è un ragazzo, né un matto. E a  Milano? Chi si cura di costoro a Milano? Chi gli darebbe retta? Chi sa che ci siano?Son come gente perduta sulla terra; non hanno né anche un padrone: gente di nessuno(cap.    XI, )


  Facciamo un ultimo esempio provando a seguire la parola “ forza”, ricorrente numerose volte nei primi capitoli del romanzo.
Quando il termine compare per la prima volta, nella presentazione di don Abbondio e “de’tempi in cui gli era toccato vivere”, esso viene tematizzato come nucleo problematico della società secentesca:

“ La forza legale non proteggeva in alcun modo l’uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi da far paura altrui[…] L’impunità era organizzata, e aveva radici che le grida non toccavano, o non potevano smuovere[…] All’apparire delle gride dirette a comprimere i violenti, questi cercavano nella loro forza reale i nuovi mezzi più opportuni, per continuare a fare ciò che le gride venivano a proibire[…]
Il nostro don Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro[…] Non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. […]
Se si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando far vedere all’altro ch’egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché non avete saputo essere voi il più forte? Ch’io mi sarei messo dalla vostra parte” ( cap. I)

La seconda volta la parola viene pronunciata da don Abbondio incalzato da Renzo  che, dopo avere parlato con Agnese, è rientrato in canonica per mettere alle strette il curato e al quale, con apodittica perentorietà, quasi si trattasse di una legge di natura, dice:

“ Per amor del cielo! Non si scherza. Non si tratta di torto o ragione; si tratta di forza” 
(cap.II)

E ancora di fronte al Cardinale Borromeo, che gli chiede ragione  del suo rifiuto a celebrare il matrimonio, don Abbondio oppone le ragioni inoppugnabili della forza cui non resta, a chi è debole, che sottomettersi:

Monsignore illustrissimo, avrò torto. Quando la vita non si deve contare, non so cosa ridire. MA quando s’ha a che fare con certa gente, con gente che ha la forza, e che non vuol sentir ragioni, anche a voler fare il bravo, non saprei cosa ci si potesse guadagnare” (cap.XXV)

E’ solo nella prospettiva della fede e della carità alla quale lo richiama il Cardinale che la “forza” può cessare di essere la misura regolatrice dei rapporti umani, sopravanzata da una “Giustizia” che non chiede a nessuno, sulla terra, di abbattere il male ma di contrastarlo con la Carità e la speranza nella Buona Novella.

E non sapete voi che il soffrire per la giustizia è il nostro vincere? […] Qual è la buona nuova che annunziate a’poveri? Chi pretende da voi che vinciate la forza con la forza? Certo non vi sarà domandato, un giorno, se abbiate saputo fare stare a dovere i potenti; che a questo non vi fu dato né missione né modo. Ma vi sarà ben domandato se avrete adoprati i mezzi ch’erano in vostra mano per far ciò che v’era prescritto, anche quando avessero la temerità di proibirvelo”

 

Parole non molto diverse da queste saranno pronunciate da padre Cristoforo per Renzo e Lucia, finalmente ricongiunti nel Lazzaretto. Nell’accompagnarli sulla soglia di quella che sarà la loro vita insieme, padre Cristoforo consegna a Renzo, quale viatico per il tempo futuro che si apre loro davanti,  il pane da lui conservato per tutta la vita in segno del perdono ricevuto dalla famiglia dell’uomo che egli aveva ucciso. Ma mentre si chiude lietamente  una vicenda di patimenti, di dolore e di prove, si riprospettano, nel mondo che verrà, le insidie, i soprusi, le violenze di sempre:


“ Qui dentro c’è il resto di quel pane… il primo che ho chiesto per carità. Lo lascio a voi altri: serbatelo; fatelo vedere ai vostri figliuoli. Verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo a’superbi e a’provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! Tutto, tutto!”