MONTALE
1925: Ossi di Seppia
1939: Occasioni
1956: La Bufera e altro, che raccoglie però liriche composte negli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra, tra il 1940 e il 1954. E’ un’opera che attesta il passaggio tra due diverse esperienze storiche: quella della guerra e del suo orrore, da cui pure potevano scaturire bagliori di speranza di un mondo diverso, e quella del dopoguerra, con l’angoscia manifesta, invece, di chi vede la fine di un’intera civiltà e nessuna possibilità di riscatto, di conciliazione con il tempo e con la natura
La poesia di Montale è una poesia sciolta da motivazioni autobiografiche ( cfr. invece Vita di un uomo), l’arte non appare più la via per raggiungere valori assoluti, sensi profondi e segreti, illuminazioni metafisiche, ma uno strumento di contatto e di enunciazione della realtà presente, della vita nel suo rivelarsi come assoluta negatività → “ Non chiederci la parola” .
Partiamo dal titolo della prima raccolta Ossi di seppia: esso fa riferimento a quanto, del mare e della sua vita, resta abbandonato sulla spiaggia, dunque relitti di vita /non-vita, frammenti di una totalità che rinviano a una ulteriorità che rimane però impenetrabile e opaca all’investigazione. Questa è la prima idea che “poeticamente” Montale ci offre della realtà, nulla che un discorso compiuto, animato e costruito a partire dall’io possa raccogliere e organizzare in strutture di senso.
→Una poesia degli oggetti, affollata, densa di oggetti che il poeta si affanna invano, con accanimento nomenclatorio, a interrogare nella speranza di cogliere, attraverso essi, un “guizzo”, un “varco”, l’istante di grazia che consenta di penetrare in mezzo a qualche verità, di carpire il segreto. Nel tentativo del soggetto di entrare in contatto con le cose si distrugge però l’inganno che tiene unite le forme delle cose, proiettate come ombre e apparenze su uno schermo. Il “varco” però è destinato a richiudersi, l’opacità del reale, impermeabile alla ragione che tenta di forzarla, si serra escludendo l’uomo e abbandonandolo a una solitudine amara resa ancora più grande nella vanità dello sforzo.
Avremo allora Cigola la carrucola del pozzo:
Cigola la carrucola del pozzo,
l’acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un’immagine ride.
[…]
Ah che già stride
visione, una distanza ci divide
E avremo Meriggiare pallido e assorto:
Meriggiare pallido e assorto
Presso un rovente muro d’orto,
schiocchi di merli, frusci di serpi
[…]
Osservare tra frondi il palpitare
Lontano di scaglie di mare
[…]
E andando nel sole che abbaglia
Sentire con triste meraviglia
Com’è tutta la vita e il suo travaglio
In questo seguitare una muraglia
Che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia
[P1]Immagine allusiva al Tartaro, agli Inferi dove, risalita per un attimo alla luce, si perde nuovamente e per sempre Euridice
[P1]Immagine allusiva al Tartaro, agli Inferi dove, risalita per un attimo alla luce, si perde nuovamente e per sempre Euridice
La “muraglia” è uno dei simboli ricorrenti negli Ossi, associata spesso all’ora topica del meriggio, l’ora accecante in cui le cose sembrano baluginare nella luce accecante e che è uno dei tempi rivelatori nella poesia montaliana:
Non rifugiarti nell’ombra di quel folto di verzura
Come il falchetto che strapiomba
Fulmineo nella caldura
E’ ora di lasciare il canneto
Stento che pare s’addorma
E di guardare le forme
della vita che si sgretola
**
Ah, l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri e a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
**
Nessuna consolazione di poesia, nella poesia di Montale.
Uno dei simboli degli istanti di grazia è il profumo dei limoni, caricato di valenze essenziali più che sensoriali:
[…]
Qui delle divertite passioni
Per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l’odore dei limoni.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
S’abbandonano e sembrano vicine
A tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene
*********
Godi, se il vento ch’entra nel pomario
Vi rimena l’ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquiario
[…]
Un rovello è di qua dall’erto muro.
Se procedi t’imbatti
Tu forse
Nel fantasma che ti salva:
si compongono qui le storie,gli atti
scancellati pel gioco del futuro
( da In limine, preposta alla raccolta “Tutte le poesie”)
La salvezza della poesia montaliana è sempre fuori da questo mondo, presente e distrutto, nel sospetto d’un altro mondo autentico e “oltre”, o magari “ anteriore “ e passato
Negli Ossi già si coglie un tentativo di resistenza al sentimento di assoluta negatività: ed è allora una poesia degli istanti di grazia, seppure subito riassorbita nella constatazione di un fallimento, ei “fantasmi salvatori”. Uno di questi è senza dubbio l’odore dei limoni nella lirica che da esso s’intitola ;.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
Fossi dove in pozzanghere
Mezzo seccate agguantano i ragazzi
Qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
Meglio se le gazzarre degli uccelli
Si spengono inghiottite dall’azzurro:
più chiaro si ascolta il sussurro
dei rami amici nell’aria che quasi non si muove
[…]
Qui delle divertite passioni
Per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l’odore dei limoni.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
S’abbandonano e sembrano vicine
A tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
[…]
MA l’illusione manca e ci riporta il tempo
Nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra
Soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
[…]
Quando un giorno da un malchiuso portone
Tra gli alberi di una corte
Ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.
Ma è lo stato d’animo “impoetico” quello da cui deriva la maggiore poesia degli Ossi: stato di immobilità difensiva e indifferenza come forma di resistenza al non comporsi del mondo in strutture coerenti di senso, “reificazione” della condizione negativa del vivere in elenchi di oggetti:
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
Che schiude la divina Indifferenza
:era la statua nella sonnolenza
Del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Ma è dopo gli Ossi che comincia veramente l’arte di Montale: ogni sua lirica consisterà, da allora, nella definizione d’un fantasma che abbia la possibilità di liberare il mondo nascosto.
Montale, in riferimento ai versi “ E andando nel sole che abbaglia/sentire con triste meraviglia...”
( Forse un mattino, composta nel 1916, a vent’anni) spiegava:
“ Mi pareva di vivere sotto una campana di vetro, eppure sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile appena mi separava da quel quid definitivo. L’espressione assoluta sarebbe stata la rottura di quel velo: un’esplosione, la fine dell’inganno del mondo come rappresentazione. Ma questo restava un limite irrangiungibile. All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una controeloquenza”.
Riguardo alle Occasioni, scritte a Firenze dopo il 1927, a chi trovava in esse una dipendenza dalla teoria del correlativo oggettivo di Eliot, Montale precisava che, essendo allora piuttosto scarsa la conoscenza di quel poeta, si trattava semmai di consonanze, vero essendo che già da tempo egli si muoveva su una strada che tendeva a far diminuire le effusioni di carattere romantico a favore di un’espressione oggettiva.
A.Jacomuzzi, La poesia di Montale
Nella negazione di tutte le fedi e le certezze tradizionali resiste, anche nelle voci più innovative della poesia dell’inizio del 900, un valore persistente attribuito alla poesia e alla parola. La voce davvero discorde è solo quella di Montale.
“La differenza fondamentale fra Montale e i suoi coetanei sta in ciò: che questi sono comunque in pace con la realtà mentre Montale non ha certezza del reale. Perciò quei poeti non derogano alla dominante eminentemente letteraria della tradizione italiana: il loro primum è formale[…] lo strumento conoscitivo bell’e assicurato, da dinamitare ove occorra per poi ricomporlo, è la grammatica “( Contini).
Consideriamo l’atteggiamento di Montale nei confronti di alcuni istituti stilistici caratteristici della poesia novecentesca, quale è per esempio l’analogia. Montale risulta distante dalla riflessione ungarettiana sull’analogia: Ungaretti diceva “ La poesia moderna si propone di mettere in contatto ciò che è più distante. Maggiore è la distanza, superiore è la poesia.”
Ma per Montale la parola non si pone come valore autonomo, non pretende più di coincidere con la rivelazione metafisica, quanto ne è semmai lo strumento che la tenta e ricerca. La frequenza dell’interrogazione diretta nella poesia montaliana successiva agli Ossi non è una costante retorica, ma il segno linguistico di questa consapevole disposizione problematica, la traccia, nel cuore del discorso poetico, di una situazione di crisi che non vuole essere elusa né esorcizzata nella illuminazione inedita dell’immagine.
L’impiego del procedimento analogico è dunque raro in Montale, e molto cauto. Quando compare, l’analogia montaliana si colloca in posizione fortemente subordinata alla struttura significativa del componimento, presentandosi ora in forma parentetica, ora come dichiarata eleganza, ma non appare mai nella forma tipica della poesia simbolista ed ermetica, come il “contatto” da cui scocca la scintilla della poesia, come solitaria suggestione verbale. Tale carattere del procedimento analogico appare sempre più chiaro e deciso col progredire dell’opera montaliana ed ha la sua verifica più ampia nella Bufera, dove anzi all’analogia, sempre più ai margini del discorso, sottentra spesso una tecnica della sovrapposizione e dell’identificazione che riprene quasi la struttura dell’allegoria.
E’ proprio alla analogia come via privilegiata di evocazione e suggestione musicale e visiva che si rifiuta la poesia di Montale, che si muove invece su quell’altra via della definizione oggettiva ed emblematica. Per questa via la lezione di Pascoli ha agito su Montale. Montale tuttavia fuoriesce completamente anche da quanto era rimasto di soggettivismo tardo romantico nella poetica del fanciullino: Pascoli trasferisce infatti alle cose la suggestione lirica che altri cercherà all’interno della parola poetica. Il linguaggio pascoliano viene esperito nella sua validità, nei suoi limiti e, infine, superato, come chiaramente attesta il passaggio dagli Ossi alle Occasioni.
Da Occasioni
Lo sai: debbo riperderti e non posso.
Come un tiro aggiustato mi sommuove
ogni opera, ogni grido e anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l'oscura primavera
di Sottoripa.
Paese di ferrame e alberature
a selva nella polvere del vespro.
Un ronzio lungo viene dall'aperto,
strazia com'unghia ai vetri. Cerco il segno
smarrito, il pegno solo ch'ebbi in grazia
da te.
E l'inferno è certo.
*******
La speranza di pure rivederti
m'abbandonava;
e mi chiesi se questo che mi chiude
ogni senso di te, schermo d'immagini,
ha i segni della morte o dal passato
è in esso, ma distorto e fatto labile,
un tuo barbaglio:
( a Modena, tra i portici,
un servo gallonato trascinava
due sciacalli al guinzaglio)
*******
Ti libero la fronte dai ghiaccioli
che raccogliesti traversando l'alte
nebulose; hai le penne lacerate
dai cicloni, ti desti a soprassalti.
Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo
l'ombra nera, s'ostina in cielo un sole
freddoloso; e l'alte ombre che scantonano
nel vicolo non sanno che sei qui.
Pubblicate nel 1939, le Occasioni abbandonano i paesaggi liguri, il lessico scabro e aspro, l'affollamento degli oggetti-simbolo per ritrovare un respiro diversamente narrativo ancorchè oscuro, ellittico, a tratti impenetrabile.
Potremmo intanto dire che le Occasioni sono anzitutto poesie d'amore, o comunque colme di presenze femminili . Ad esse, sempre, si rivolge il poeta intessendo un dialogo straziante e struggente perchè impossibile.
La donna a cui Montale destina il suo sommesso "tu" è infatti o lontana o inafferrabile o perduta. E' tuttavia solo questa inafferrabile presenza femminile l'unica speranza di salvezza in un mondo disertato dalla ragione e dal Senso, percorso da trasalimenti di violenza e di buio. C' è tanto Dante, in queste poesie delle Occasioni, il ricordo della donna-angelo che però, in questo caso, presenza balenante di possibilità salvifiche che non si sono realizzate o non si ridaranno, certifica invece il negativo storico e il vuoto metafisico.