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giovedì 8 novembre 2012

La Ginestra di Leopardi



La Ginestra di Leopardi

Ultimo, solenne e vibrante componimento di Leopardi ( 1836), La Ginestra è stata definita la più intensa espressione del "titanismo" leopardiano  (Walter Binni), cioè di quell'atteggiamento eroico dell'uomo che, rifiutati gli inganni consolatori, non si sottrae alle dolorose verità materialiste ma da queste sa ricavare piuttosto un insegnamento di solidarietà rivolto a tutti gli uomini, accomunati dallo stesso destino.
 Prima di tutto questo, però, La Ginestra è una romanticissima poesia di contemplazione di paesaggi: paesaggi di rovine, di " deserti", di "campi cosparsi di ceneri infeconde" su cui appena aleggia il "profumo " consolatore della "gentile" ginestra ( strofa 1);  e paesaggi sconfinati, immensi  quali sono quelli dei cieli notturni con i loro " remoti nodi quasi di stelle" a cui si fissano, smarriti e sopraffatti , gli sguardi degli uomini  (strofa 4). Sono queste le immagini che il "pensiero poetante" innalza al valore di simbolo, oggettivando in esse la grandiosità della natura e la piccolezza dell'uomo. 
E guardiamo al microscopio, allora, le antitesi lessicali della prima strofa, che si apre sul potente paesaggio dominato dal  "formidabil monte/sterminator Vesevo".  Ai "campi cosparsi/ di  ceneri infeconde", all ' "impietrata lava", alla "ruina" che tutto  "intorno involve", all' " altero monte/ dall'ignea bocca", si oppone la presenza umile della "odorata ginestra", unica presenza di vita, solitaria e tenace. E' l'umile "fior gentile" che " amante" dei luoghi solitari," compagna" del  destino infelice, "abbellisce" l' aspro paesaggio vulcanico ed " esala un "profumo/ che il deserto consola". Eccoli qui i due personaggi tragici, uno di fronte all'altro, l'uno portatore di morte e rovina, l'altra  pietosa e dolce presenza consolatrice.
La seconda strofa  si apre su toni declamatori con quell'imperativo " Qui mira e qui ti specchia/ secol superbo e sciocco"  che chiama direttamente in causa il destinatario primo del componimento leopardiano, la società ottocentesca stoltamente superba nella sua fede progressista e che il poeta invita ad affacciarsi su quello scenario di arida pietrosità, epifania demistificante di ogni illusione antropocentrica. Solo progredendo sulla strada aperta innanzi dai lumi settecenteschi e rifiutando gli inganni della ragione, come già diceva il Tristano delle Operette morali “ si cresce in civiltà”.
  I toni ragionativi continuano nella terza strofa, in cui Leopardi mette a confronto la stoltezza di chi promette glorie illustri e felicità a una umanità che  “un’onda /di mar commosso”, “ un fiato/ d’aura maligna”, “ un sotterraneo crollo” possono distruggere in un momento con la grandezza, davvero eroica, di chi sa guardare in faccia il proprio arduo destino e virilmente soffrire ( “ Nobil natura è quella/ che a sollevar s’ardisce/ gli occhi mortali incontra/al comun fato e che con franca lingua/ nulla al ver detraendo/ confessa il mal che ci fu dato in sorte, e il basso stato e frale” ).

Qui si introduce la parte finalmente construens della riflessione leopardiana e il superamento delle sconsolate conclusioni di Tristano. Rivediamone un momento alcuni passaggi. E’ necessario, perché La ginestra, senza rinnegare le posizioni dell’ultima Operetta morale ne costituisce però un superamento, essendo questa volta “la pietà” a prendere il posto del “riso” con cui Tristano si prendeva gioco degli uomini, preferendo ai loro puerili inganni “tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa ma vera”. Era una solitudine sdegnosa ed eroica quella nella quale si chiudeva Tristano, che scandiva il suo credo esistenziale nella enunciazione perentoria della paratassi:
“Calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogni inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa ma vera”.
Cosa c’è in più, dunque, ne La ginestra? C’è la conclusione che l’uomo è innocente e che solo un amore fraterno, generato dalla coscienza della comune fragilità, una solidarietà amica che sappia stringere “ i mortali in social catena” contro l’unica nemica, può rendere più sopportabile la vita non accrescendo al male della natura il male che l’uomo fa all’uomo.
 Nella 4^ strofa ritorna una poesia contemplativa che sembra recuperare situazioni e toni “ idilliaci”  ( “ seggo la notte… veggo dall’alto fiammeggiar le stelle… e quando miro…al pensier mio / che sembri allora”) salvo poi declinarli in una sintassi ardua e vertiginosa come vertiginoso è quel cielo profondo, infinito in cui si inoltra e smarrisce lo sguardo leopardiano.
Straordinariamente densi di allusioni ed echi letterari questi versi, come se ci fosse bisogno di sprofondare anche negli altrettanto immensi cieli poetici per dare slancio alla propria domanda esistenziale riaccordandola con quella di tutti i secoli.
Vediamo meglio. Echi pascaliani si levano dai versie poi che gli occhi a quelle luci appunto/ ch’a lor sembrano un punto/ e sono immense, in guisa/ che un punto a petto lor son terra e mare/ veracemente; a cui l’uomo non pur, ma questo/ globo ove l’uomo è nulla,/ sconosciuto è del tutto” . Confrontiamoli con i Pensieri di Pascal:
 L’uomo contempli dunque la natura tutta intera nella sua piena e alta maestà…la terra gli apparisca come un punto in confronto all’immenso giro che quell’astro ( il sole) descrive…E se a questo punto la nostra vista si arresterà, l’immaginazione vada oltre…Che cos’è l’uomo nell’infinito? )
Non è tutto. L’immagine della “terra come punto” è consueta nel topos della contemplazione della terra dall’alto, presente in Cicerone, Seneca, Dante come, dopo Leopardi, in Pascoli.
Confronta bene:
Cicerone, Somnium Scipionis “ Erant autem eae stellae quae numquam ex hoc loco vidimus, et eae magnitudines omnium quas esse numquam suspicati sumus… Iam vero ipsa terra mihi parva visa est, ut me imperii nostri, quo quasi punctum eius attingimus, paeniteret
Seneca, Naturales Quaestiones, Prefazione, Punctum est istud in quo navigatis, in quo bellatis, in quo regna disponitis… sursum ingentia spatia sunt”
Dante, Paradiso, XXII, “Rimira in giù, e vedi quanto mondo/ sotto li piewdi già esser ti fei/…/ Col viso ritornai per tutte quante/le sette spere, e vidi questo globo/ tal ch’io sorrisi del suo vil sembiante/…/ L’aiuola che ci fa tanto feroci/… /tutta m’apparve da’colli a le foci”.  (da notare che la parola “aiuola” è calco dal latino “areola” = piccola area, spazio esiguo e limitato più che “giardino”
Perfino gli accenti dei Salmi sembrano ritrovarsi, seppure naturalmente in chiave antiprovvidenziale: anche qui, confronta i vv. 174-185
“e quando miro/ quegli ancor più senz’alcun fin remoti/ nodi quasi di stelle/ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo/ e non la terra sol, ma tutte in uno, /del numero infinito e de la mole/ con l’aureo sole insiem, le nostre stelle/ o sono ignote, o così paion come/ essi alla terra, un punto/di luce nebulosa; al pensier mio/ che sembri allora o prole dell’uomo?
Con  Salmo 8 Se guardo il Cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu vi hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi?”
Come partendo dalle prime e più percepibili stelle lo sguardo di Leopardi si spinge sempre più a fondo nell’immensità del cielo e del pulviscolo sidereo, altrettanto sembra che dentro una reminiscenza poetica egli ne rintracci un’altra e un’altra e un’altra ancora: gli intrecci infiniti delle parole dei poeti




giovedì 1 novembre 2012

Sulla lingua per il romanzo



Lettera a Claude Fauriel ( naturalmente, il testo è scritto in francese)
Milano, 3 novembre 1821


Per indicarvi in breve la mia idea fondamentale circa  romanzi storici, e mettervi così sulla via  per rettificarla, vi dirò che concepisco tali romanzi come la rappresentazione di una data condizione della società fatta attraverso vicende e caratteri così simili alla realtà che essa possa apparire una storia vera appena appena scoperta. Quando sono ad essa mescolati avvenimenti e personaggi storici, credo che si debba rappresentarli nel modo più rigorosamente storico: perciò, ad esempio, in Ivanhoe, Riccardo cuor di leone mi sembra figura difettosa. Quanto poi alle difficoltà opposte dalla lingua italiana alla trattazione di questi argomenti, esse sono reali e grandi, ne convengo; ma penso che derivino da un fatto generale, che purtroppo vale per ogni genere di componimenti. Questo fatto è ( mi guardo intorno per assicurarmi che nessuno mi ascolti ), questo triste fatto è, a mio parere, la povertà della lingua italiana. Quando un francese cerca di rendere il meglio possibile le sue idee, vedete che abbondanza e che varietà di modi trova in questa lingua che va formandosi da tanto tempo e giorno per giorno: in tanti libri, in tante conversazioni, in tanti dibattiti di ogni genere. Così un francese ha una regola per scegliere le sue espressioni, e questa regola la trova nei suoi ricordi, nelle sue abitudini, che gli danno un senso quasi sicuro della conformità del suo stile con lo spirito generale ella sua lingua; non deve consultare il dizionario per sapere se una parola urterà o sarà accettata; si domanda se essa è francese o no, ed è pressochè sicuro della risposta. […]
  Immaginate invece un italiano che, se non è toscano, scrive in una lingua che non ha quasi mai parlato, e che ( anche se è nato nel paese privilegiato ) scrive in una lingua che è parlata da un piccolo numero di abitanti d’Italia, una lingua nella quale non vengono discussi oralmente grandi problemi, una lingua in cui le opere relative alle scienze morali sono assai rare e distanziate nel tempo […]  Manca del tutto a questo povero scrittore quel sentimento per così dire di comunione col suo lettore, quella certezza di maneggiare uno strumento ugualmente conosciuto da entrambi.
 Supponiamo che egli richieda se la frase che ha appeno scritto è italiana: come può dare una risposta sicura a una domanda che non è precisa? Perché, che cosa significa italiano in questo senso? Secondo alcuni quel che è consegnato nella Crusca, secondo altri quello che è capito in tutta Italia, o dalle classi colte; i più non applicano a questa parola alcuna idea precisa. […]
Nel rigore scorbutico e pedantesco dei nostri puristi c’è a mio parere un sentimento di fondo molto ragionevole: è il bisogno di una certa stabilità, di una lingua concordata fra coloro che scrivono q coloro che leggono; credo solo che essi abbiano torto a credere che nella crusca e negli scrittori classici ci stia tutta la lingua; e quando anche ci stesse, avrebbero ancora torto a pretendere che la si cercasse lì, che la si imparasse, che ci se ne servisse; perché è assolutamente impossibile che dai ricordi di una lettura risulti una conoscenza sicura, vasta, applicabile a ogni istante, di tutto il materiale di una lingua. Ditemi ora come deve comportarsi un italiano che, non sapendo far altro, vuole scrivere. […
Penso con voi che scrivere bene un romanzo in italiano sia una delle cose più difficili, ma questa difficoltà la vedo, benché in grado minore, anche in altri generi letterari; e con la coscienza, non completa ma assai sicura, che ho dell’inadeguatezza dell’artefice, ho anche la coscienza quasi altrettanto sicura dei limiti che provengono dalla materia.