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mercoledì 25 gennaio 2012

INTERVISTA SU DANTE A ROBERT HOLLANDER

            

Robert Hollander spiega come andrebbe letta la "Divina Commedia"


PROFESSORI NOIOSI RUBANO LA VITALITÀ DI DANTE


Pubblichiamo un'intervista a Robert Hollander, professore di letteratura europea all'Uni-
versità di Princeton, uscita su "Il Sussidiario" (www.ilsussidiario.net).

di Rossano Salini

Se la Commedia di Dante è potuta diventare, nel giu- dizio soprattutto degli studenti, un'opera noiosa e difficile da affrontare, non è perché si tratti di poesia troppo alta per essere compresa. È stata soprattutto colpa dei professori, che hanno "rubato la vita al po ema dantesco". Parola di Robert Hollander, tra i massimi esperti mondiali della poesia dantesca, che nei giorni scorsi ha preso parte al Meeting per l'ami- cizia tra i popoli di Rimini per parlare dell'"avventura dell'io in Dante".

Professor Hollander, la poesia di Dante si caratterizza so- prattutto per il fatto di parlare delle "cose ultime": ma noi, oggi, siamo in grado di recepire una poesia di questo genere?

Questo è il problema fondamentale con cui il dantismo da sempre deve fare i conti,
vale a dire la nostra incapacità, o, meglio, il nostro rifiuto ad affrontare le questioni
ultime. Dopo il romanticismo abbiamo avuto critici come De Sanctis e Croce, uomi-
ni di grande stile e potenza intellettuale, che però hanno operato una sorta di ridu-
zione, nell'intenzione di lasciarci un Dante più simile a noi. Questo almeno per
quanto riguarda l'Inferno; difficilmente la stessa operazione sarebbe riuscita per il
Paradiso, e direi anche per il Purgatorio, cantiche più difficili da affrontare per chi ri-
fiuti di considerare attentamente la posizione teologica di Dante. Parlando dei
grandi eroi dell'Inferno (Francesca, Farinata, Ulisse, Ugolino e così via) è inve-
ce più semplice immaginare un Dante come noi.

E questa è secondo lei un'operazione non corretta dal punto di vista critico?

È secondo me un grandissimo sbaglio. Dante ci porta al confronto con questi per-
sonaggi con l'intento di farci capire che loro sono come noi, ma in quanto peccatori.
Dante sperava che ognuno di noi, leggendo ad esempio il caso di Francesca, vedes-
se che lei dopo tutto era una peccatrice, e che aveva fallito riguardo alle cose impor-
tanti della vita: ha scelto cioè una via peggiore, che condanna la persona che la se gue. Questa potrebbe sembrare una cosa ovvia, ma leggendo la critica degli ultimi
centocinquant'anni non è affatto chiaro che la maggioranza dei critici capisca questo.

Elemento centrale della poesia dantesca, fino all'ultimo gradino del Paradiso, è la figura di Beatrice, e la concezione dell'amore che Dante matura e approfondisce lungo tutto il suo percorso: come possiamo capire questa idea così grandiosa dell'amore?

Nella Vita nuova c'è un poeta che ha deciso di tracciare una nuova pista - post-
guinizzelliana e post-cavalcantiana - secondo cui la donna non è semplicemente
una donna, e non è neppure vicina a essere un angelo: è una persona viva che as-
somiglia in tutto a Gesù Cristo. E questa è un'idea pazzesca! Dante inizia dunque
questo percorso per sondare fino in fondo, fino all'ultimo le possibilità che la poesia
per una donna può offrire. E nessuno aveva fatto questo prima di lui: c'era san
Francesco, che però parlava direttamente di Dio. È una pista completamente nuova,
quella che Dante ha deciso di aprire; e per di più lo fa scrivendo anche un auto-
commento, che è una cosa che non si deve mai fare! Da questo possiamo capire co-
me la carriera poetica di Dante sia caratterizzata dal dedicarsi alle cose impossibili e
proibite. Ecco dunque che abbiamo la Vita nuova, un'opera in cui, soprattutto alla
fine, possiamo intravedere il fatto che Beatrice rimanda a Gesù Cristo. E poi, il si-
lenzio.

Che cosa accade a Dante tra la Vita nuova e la Commedia?

Verso il 1304 si colloca l'inizio della composizione del Convivio e del De Vulgari elo-
quentia: in entrambe queste opere Dante è un uomo cambiato. È un momento molto
difficile e complesso del percorso dantesco, segnato dal tentativo di iniziare una
nuova carriera come poeta, che potremmo definire più convenzionale. L'amore nel
Convivio, infatti, non ha più nulla a che fare con la concezione della Vita nuova: ora
la donna è la filosofia, e non c'è eresia in questo, è una cosa totalmente accettabile.
Ma ecco che a un certo punto, nel 1307-1308, Dante decide di abbandonare il Convi-
vio - lasciando interrotto anche il De Vulgari eloquentia - e dà inizio alla Commedia:
riprende cioè il percorso della Vita nuova, per portarlo a compimento.
È talmente forte la continuità tra le due opere che si è addirittura ipotizzato che la conclu-
sione della Vita nuova sia stata scritta quando già Dante aveva in mente la Commedia.
Questo è sicuramente falso, oltre che filologicamente indimostrabile: la Vita nuova è
opera compiuta, integra. Quello che bisogna capire è che già al tempo della Vita
nuova Dante aveva in mente quanto poi ha compiuto nella Commedia. Ma il fatto è
che, dopo aver intrapreso questo percorso, ha in un certo senso realizzato che quel-
la era una pista troppo difficile, che la gente non poteva capire, e se anche l'avesse
capita, non avrebbe però potuto amarla. Troppo difficile accettare una soluzione di
questo genere, cioè una donna modellata su Gesù Cristo. E anch'io, dicendo questo di lui, sono quasi imbarazzato! Non è una cosa che si fa; e non per nulla non è stato
più fatto. E invece Dante nella Commedia ritorna proprio su questo, ritorna su Beatrice -
Cristo. Il resto è la storia che conosciamo.

Nonostante tutte le difficoltà della poesia dantesca, le letture della Commedia negli ultimi tempi stanno registrando un grandissimo successo, prima con Vittorio Sermonti e poi con gli spettacoli di Roberto Benigni. Come spiega un tale successo, per un autore che forse per troppo tempo abbiamo relegato ai banchi di scuola?

Se questo è accaduto è per colpa nostra: noi professori siamo i responsabili, io in-
cluso. Siamo noiosi, e rubiamo la vita del poema dantesco. Non saprei dire bene il
perché: forse perché è un poema molto complesso, e ha bisogno di uno studio ser-
rato. Il modo principale con cui Dante è stato rubato della sua essenza, e di cui ho
parlato nel mio primo libro, Allegory in Dante's "Commedia" (1969), è il fatto che lo si
è voluto ridurre a poeta allegorico, e sostanzialmente, per questa strada, a un poeta
da bambini. È Dante stesso, invece, a darci la soluzione di questo problema: egli
spiega infatti che esiste un'allegoria dei teologi e una dei poeti, e nell'epistola a
Cangrande dice chiaramente di aver seguito nella sua poesia l'allegoria dei teologi.
È una cosa ben diversa: non c'è allegoria poetica in Dante (a parte alcune immagini,
come ad esempio le processioni nel Paradiso terrestre) e la Commedia è scritta esat-
tamente come se fosse storia. Questa è la cosa più importante: bisogna leggere
Dante come se tutto fosse accaduto. Virgilio non è la ragione, Beatrice non è la fe-
de: Virgilio è Virgilio, Beatrice è Beatrice, e Dante è Dante: sono persone storiche, e
questo è tanto evidente quanto fondamentale.

Possiamo però dire che questa interpretazione corretta di Dante sta a poco a poco facendo breccia, e diffondendosi anche tra gli studenti?

Io ho trovato, personalmente, che gli universitari sono pronti per il nuovo Dante,
per il Dante storico, non diverso da noi. Un uomo sincero, credente, con una sicu-
rezza di se stesso, e con un senso maturo della letteratura. Egli, infatti, leggeva Vir-
gilio come nessun altro lo avrebbe letto, e così anche Ovidio, e i Vangeli. Leggeva
tutto nello stesso modo: anche Ovidio è storicizzato. Dante crede nella storia, e
ama pensare in quanto uomo che è dentro alle vicende del mondo; ecco perché è
anche poeta politico.

Questo modo di leggere i classici, Virgilio e Ovidio, non rappresenta però una sorta di approccio immaturo, rispetto ad esempio a quello che poi metteranno in atto gli umanisti?

Secondo me è più maturo, perché non allegorizza; gli umanisti, invece, da questo
punto di vista hanno ammazzato gli autori. Loro hanno fatto un'altra cosa, hanno
cioè riscoperto il testo, e questo è un contributo veramente enorme. Per Dante sotto questo aspetto basta pensare alla corrispondenza con Giovanni del Vir-gilio, il quale era professore e leggeva gli autori con il filtro dell'allegoria; le quattro egloghe sono documenti molto affascinanti, perché ci danno il senso di cosa sia l'ac cademismo. Dante invece non era un professore, e il pubblico che aveva in mente era la gente comune, certamente anche acculturata, ma comunque un pubblico bor-
ghese, fatto di lettori appassionati. È un autore che parla di cose grandi, delle "cose
ultime", ma rimane al tempo stesso un poeta profondamente popolare.

F:\Rivista (Ottobre 2008)\02 - Interviste.doc
(©L'Osservatore Romano - 6 settembre 2008)

domenica 8 gennaio 2012

Per i ragazzi di terza


Il romanzo: caratteri del genere

Il romanzo è il genere letterario antitetico all'epos. Mentre il mondo dell'epos è il mondo degli eroi, dei primi, e il suo tempo è il passato assoluto, completamente separato dal presente a cui appartengono il poeta e il suo pubblico, nel romanzo il centro prospettico, anche quando si parla del passato, è sempre dato dal presente e dalla sua incompiutezza, dalla sua coscienza, dalla sua problematicità.. ma Non c'è distanza incolmabile fra il mondo dell'autore e quello dell'oggetto raffigurato come avviene invece per l'epos, il cui racconto si fonda sempre su una parola “altra” e superiore, quella della Musa : “Diva, narrami”

Il romanzo è un genere che presuppone una coscienza storica e non mitica: nell'epos la verità è qualcosa di assoluto e oggettivo, i personaggi, le loro azioni, i loro valori hanno una funzione di modello per la realtà. L'epos tesaurizza e codifica i valori identitari su cui una società si fonda e che vuole trasmettere. Lo svolgimento lineare verso una conclusione definitiva a cui tendono tutti gli avvenimenti epici dà forma all'illusione che esista un modello certo da seguire e un destino che deve adempiersi. Ciò che invece è assente nell'epica è l'avventura nel senso dell'incontro con l'ignoto e l'inatteso.
Nel romanzo, genere “socratico”, c'è invece sempre qualcosa di incompiuto e di aperto, il senso di una verità da cercare e da sperimentare per le vie del mondo, nel contatto e nell'interazione dialogica con gli altri uomini. Per questo il romanzo ha bisogno della lingua viva della conversazione, lingua della pluridiscorsività, abitata dagli innumerevoli punti di vista e aperta alle molteplici istanze e rappresentazioni del mondo di chi la usa.
Non la dimensione chiusa del passato assoluto ma quella aperta del presente-futuro è l'orizzonte temporale del romanzo che, più che fornire prospettive definitive di senso apre problemi e suscita interrogativi. ( Cfr. la conclusione dei Promessi Sposi)

Nel romanzo la verità non preesiste al mondo, né il mondo si conforma mai interamente ad essa; così il personaggio è sempre impegnato in una ricerca che lo mette di fronte a se stesso nel momento in cui lo mette di fronte al mondo. Il personaggio romanzesco è dunque , per sua natura, un personaggio dinamico, evolutivo. Si potrebbe anche dire che la forma simbolica di qualunque romanzo è quella del viaggio.
Il personaggio epico è un personaggio monolitico, pienamente organico e integrato nel mondo di cui fa parte e di cui esprime in toto i valori. Nel loro agire, Achille e Ulisse non mettono mai in discussione la società e il mondo a cui appartengono e che, anzi, proprio attraverso di loro trova la riconferma della sua verità assoluta.
La monoliticità del personaggio epico si incrina quando si apre uno iato fra l'essere del personaggio e l'essere del mondo, quando il personaggio non conferma più la verità delò mondo ma la mette in crisi, la sottopone a una verifica.
Il personaggio romanzesco è sempre un personaggio problematico e conflittuale, in conflitto cioè con se stesso o con la società.

lunedì 2 gennaio 2012

Una lezione online sui Promessi Sposi. La struttura del romanzo

Nell'edizione dei Promessi Sposi del 1827 Manzoni dà al romanzo la struttura nella quale lo leggiamo oggi e che non sarà più variata. I 38 capitoli sono organizzati in blocchi, con due grandi cerniere narrative costituite dalla storia di Gertrude e da quella dell'Innominato. Vediamoli nel loro insieme.
I primi otto capitoli sono caratterizzati, si potrebbe dire, dalla unità di luogo e di azione: l'ambientazione è nel paese di Renzo e Lucia dove prende avvio la vicenda con l'avviluppamento del nodo narrativo. Questa prima serie di avvenimenti si conclude con il fallimento di due azioni che si svolgono contemporaneamente: il tentativo di rapimento di Lucia ad opera dei bravi di Don Rodrigo e il matrimonio clandestino nella canonica di don Abbondio. L'VIII capitolo termina con l'abbandono del paese, la traversata del lago e la separazione dei personaggi: Renzo dovrà recarsi a Milano al convento dei Cappuccini a cui lo invia con una lettera di presentazione Padre Cristoforo mentre Lucia troverà asilo nel convento di Monza. In termini di morfologia del racconto secondo le funzioni descritte da Propp si ha qui la rottura della situazione di partenza e l'allontanamento dell'eroe. Abbandonato lo spazio chiuso e protettivo del paese, da cui prende congedo silenziosamente Lucia, affondata nelle tenebre della notte e del lago nella lirica pagina dell'”Addio Monti”, si aprono da questo momento per i due “ fuggiaschi” gli spazi aperti e sconosciuti dell'avventura.
Dopo i due capitoli contenenti le vicende della Monaca di Monza, i capitoli XI- XVII seguono Renzo nella sua avventura milanese fino al suo ricovero in casa del cugino Bortolo, dove Manzoni lo lascia per tornare al paesetto dei due promessi dove continuano gli intrighi di don Rodrigo ( capp. XVIII-XIX).
I capp. XX – XXVI orchestrano vari generi e registri stilistici: si passa dal romanzo nero, con il rapimento e la prigionia dell'eroina , al grande a-solo tragico della notte dell'Innominato, dal sublime del dialogo fra Federico Borromeo e l'Innominato all'abbassamento comico del dialogo del Cardinale con don Abbondio e dei soliloqui di quest'ultimo, nei quali si manifesta la rozzezza e ottusità del suo sentire.
Guardate questo brano, è la scena in cui don Abbondio, a cavallo di un mulo, sta salendo tutto impaurito al castello dell'Innominato per ricondurre Lucia da sua madre:

Cosa dirà quel bestione di don Rodrigo? ... sta a vedere che se la piglia anche con me, perchè mi son trovato dentro questa cerimonia ( cioè, la sensazionale conversione dell'Innominmato!) ...
Come finiscono queste faccende? I colpi cascano sempre all'ingiù; I cenci vanno all'aria... ecco che il cencio son divenuto io.... Cosa farà ora sua signoria illustrissima ( il cardinale)per difendermi, dopo avermi messo in ballo? ( cfr. il comando di salire con l'Innominato al Castello per liberare Lucia) Mi può stare mallevadore lui che quel dannato ( L'Innominato) non mi faccia un'azione peggiore della prima?... Quelli che fanno il bene, lo fanno all'ingrosso: quando l'hanno provata quella soddisfazione, n'hanno abbastanza, e non si voglion seccare a star dietro a tutte le conseguenze”
Un po' diverso, come tono, dalle parole rivolte ai Bravi per riferirirsi a don Rodrigo ( “ Lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli... Disposto... disposto sempre all'ubbidienza... “cap.I)

Il capitolo XXVI sembra avviare il racconto verso la soluzione del nodo narrativo: dopo essere stata liberata dal Castello dell'Innominato e avere reincontrato la madre, Lucia viene ricoverata a Milano presso don Ferrante e donna Prassede mentre Agnese tornata al paese cerca di averre notizie di Renzo e di mettersi in contatto con lui. Le due donne si ripromettono di rivedersi nell'autunno successivo ma... Qui la storia privata di Renzo, Lucia, Agnese e gli altri si raccorda con la grande Storia e i suoi drammi collettivi. Manzoni abbandona i personaggi per comporre un vasto quadro di carattere storico : nei capp. XXVIII-XXXII si narra della guerra per la successione al Ducato di Mantova e dello scoppiare della peste a Milano.
La lunga digressione storica prende avvio alla fine del cap.XXVII e su questo vale la pena di fermare per un attimo l'attenzione.

“ Venne l’autunno, in cui Agnese e Lucia avevan fatto conto di ritrovarsi insieme: ma un grande avvenimento pubblico mandò quel conto all’aria: e fu questo certamente uno de’suoi più piccoli effetti. Seguiron poi altri grandi avvenimenti, che però non portarono alcun nessun cambiamento notabile nella sorte de’ nostri personaggi. Finalmente nuovi casi, più generali, più forti, più estremi, arrivarono anche fino a loro, fino agli infimi di loro, secondo la scala del mondo: come un turbine vasto, incalzante, vagabondo, scoscendendo e sbarbando alberi, arruffando tetti, scoprendo campanili, abbattendo muraglie, e sbattendone qua e là i rottami, solleva anche i fuscelli nascosti tra l’erba, va a cercare negli angoli le foglie passe e leggieri, che un minor vento vi aveva confinate, e le porta in giro involte nella sua rapina.” (XXVII, r. 451)

Il “turbine” che si va preparando è quello della guerra per la successione al Ducato di Mantova mossa dagli interessi dei potenti della terra, cui si accompagnano i saccheggi, l' inasprirsi della carestia e infine la peste, portata dall'esercito alemanno dentro i confini della Valtellina. Ma la similitudine, costruita sulle figure del climax e dell'anticlimax, chiarisce come quella che Manzoni sta anticipando non possa essere riduttivamente chiamata digressione, tanto gli avvenimeneti descritti sono fittamente intrecciati con le vicende dei protagonisti di cui costituiscono una nuova e più grave complicazione.
Guardiamo più attentamente il brano impostato sul parallelismo “turbine vasto”/ “minor vento”.
Se il “vento minore” che aveva investito con il suo soffio le foglie leggiere non può che riferirsi alla perturbazione provocata dalla prepotenza di don Rodrigo e dai casi generati da quella, ora è il “turbine vasto” della guerra, che si abbatte sui regni e sulle nazioni modificandone gli assetti, a riscompigliare le carte, disperdendo e tormentando quella che don Rodrigo aveva chiamato sprezzantemente “ la gente perduta sulla faccia della terra”, “la gente di nessuno”.
E mentre la storia ci dà “gli avvenimenti che ci sono noti solo dall'esterno, ciò che gli uomini hanno compiuto” ( Lettera a Monsieu Chauvet sull'unità di tempo e di luogo nella tragedia), spetta al poeta ricostruire la sostanza di carne, le passioni e i patimenti di quella “gente di nessuno” che ne costituiscono il volto nascosto.
Con il capitolo XXXIII si ritorna ai personaggi “ per non lasciarli più fino alla fine”. L'azione si sposta nella Milano devastata dalla peste, dove si riallacciano le strade di molti di loro, per tornare quindi, nell'ultimo capitolo, al paesetto dove tutto ha avuto inizio e dove finalmente Renzo e Lucia possono essere sposati da un Don Abbondio insolitamente gioviale e vitale.