Riflessioni sulla povertà
della lingua e della letteratura in Italia
LEOPARDI
10-11 novembre 1823
( Sulla lingua e la letteratura in Italia)
Sono gli anni del cosiddetto “ silenzio poetico”, in cui Leopardi, sentendo in lui prosciugata l’ispirazione
lirica, sta lavorando alle Operette
Morali, dialoghi satirici che, con “le armi del ridicolo”, prendono di mira
la presunzione antropocentrica dell’uomo moderno.
Tra le cagioni del mancar noi ( e così gli spagnoli) di
lingua e letteratura moderna propria, si dee porre, e per prima di tutte, la
nullità politica e militare in cui è caduta l’Italia, non meno che la Spagna
dal seicento in poi […]
Crescendo le
cose, la lingua sempre si accresce e
vegeta. Ma appunto per la stessa ragione, arrestandosi e mancando la vita, si
ferma e impoverisce e quasi muore la lingua, com’è avvenuto infatti dal
seicento in qua agli spagnoli ed a noi, le cui lingue di ricchissime e
potentissime che furono, si sono andate e si vanno di mano in mano
continuamente scemando, restringendo e impoverendo[…]
Noi abbiam
pochissima conversazione, ma questa pochissima è straniera; conversazione
italiana non esiste; quindi è ben naturale che la conversazione d’Italia non
sia fatta in lingua italiana, e tutto ciò che ad essa appartiene, e questo è
moltissimo, e di generi assai molteplice, e coerente con molte parti della
vita, costumi, letteratura ec. Sia
espresso in voci straniere, e non abbia in italiano né parole né modi che lo
significhino.
MANZONI
Lettera a Claude Fauriel ,
Milano, 3 novembre 1821
( naturalmente,
il testo è scritto in francese)
Manzoni è alle prese
con la composizione del Fermo e Lucia
Quanto poi alle difficoltà opposte dalla lingua italiana
alla trattazione di questi argomenti, (
cioè i romanzi storici) esse sono reali e grandi, ne convengo; ma penso che
derivino da un fatto generale, che purtroppo vale per ogni genere di
componimenti. Questo fatto è ( mi guardo intorno per assicurarmi che nessuno mi
ascolti ), questo triste fatto è, a mio parere, la povertà della lingua
italiana. Quando un francese cerca di rendere il meglio possibile le sue
idee, vedete che abbondanza e che varietà di modi trova in questa lingua che va
formandosi da tanto tempo e giorno per giorno: in tanti libri, in tante
conversazioni, in tanti dibattiti di ogni genere. Così un francese ha una
regola per scegliere le sue espressioni, e questa regola la trova nei suoi
ricordi, nelle sue abitudini, che gli danno un senso quasi sicuro della
conformità del suo stile con lo spirito generale ella sua lingua; non deve
consultare il dizionario per sapere se una parola urterà o sarà accettata; si
domanda se essa è francese o no, ed è pressochè sicuro della risposta. […]
Immaginate invece
un italiano che, se non è toscano, scrive in una lingua che non ha quasi mai
parlato, e che ( anche se è nato nel paese privilegiato ) scrive in una lingua
che è parlata da un piccolo numero di abitanti d’Italia, una lingua nella
quale non vengono discussi oralmente grandi problemi, una lingua in cui le
opere relative alle scienze morali sono assai rare e distanziate nel tempo
[…] Manca del tutto a questo povero
scrittore quel sentimento per così dire di comunione col suo lettore, quella
certezza di maneggiare uno strumento ugualmente conosciuto da entrambi.
[…]
Nel rigore scorbutico e pedantesco dei nostri puristi c’è a
mio parere un sentimento di fondo molto ragionevole: è il bisogno di una certa
stabilità, di una lingua concordata fra coloro che scrivono q coloro che
leggono; credo solo che essi abbiano torto a credere che nella crusca e negli
scrittori classici ci stia tutta la lingua; e quando anche ci stesse, avrebbero
ancora torto a pretendere che la si cercasse lì, che la si imparasse, che ci se
ne servisse; perché è assolutamente impossibile che dai ricordi di una lettura
risulti una conoscenza sicura, vasta, applicabile a ogni istante, di tutto il
materiale di una lingua.
E veniamo alla
Introduzione al Fermo e Lucia ( 1823)
Introduzione al Fermo e Lucia
Che cosa poi significhi scriver
bene non credo che alcuno possa definirlo in poche parole. Ecco però alcune
delle idee che mi sembra doversi intendere in quella formola.
A bene scrivere bisogna
saper scegliere quelle parole e quelle frasi, che per convenzione generale di
tutti gli scrittori, e di tutti i favellatori, hanno quel tale significato:
parole e frasi che o nate nel popolo, o inventate dagli scrittori, o derivate
da un’altra lingua, quando che sia, comunque sono generalmente ricevute e
usate. Parole e frasi che sono passate
dal discorso negli scritti senza parervi basse, dagli scritti nel discorso
senza parervi affettate; e sono generalmente e indifferentemente adoperate
all’uno e all’altro uso.
Parole e frasi divenute per
qust’uso generale e esclusivo tanto famigliari ad ognuno, che ognuno le
riconosca appena udite; dimodochè se un parlatore o uno scrittore per caso
adoperi qualcheduno che non sia di quelle, o travolga alcuna di quelle ad un
senso diverso dal comune, ognuno se ne avvegga e ne resti offeso; e per provare
che quella parola sia barbara, o inopportuna non debba frugare un vocabolario,
né ricordarsi che quella parola non è stata usata dai tali e dai tali
scrittori, ma gli basti appellarsene alla memoria, all’uso, al sentimento degli
altri ascoltatori, i quali fossero mille, converranno tosto del sì o del no.
[…]
Se in Italia vi sia una lingua che abbia
questa condizione, è una questione su la quale non ardisco dire il mio parere.
[…] Io per me ne conosco una, nella quale ardirei promettermi di parlare, negli
argomenti ai quali essa arriva, tanto da stancare il più paziente uditore, e
questa lingua, senza vantarmi, è la milanese. Ve n’ha un’altra in Italia,
incomparabilmente più bella, più ricca di questa, e di tutte le altre, e che ha
materiali per esprimere idee più generali etc. ed è, come ognun sa, la toscana.
A Tommaso Grossi, Firenze 1827
Nel 1827, anno di pubblicazione della I edizione dei Promessi Sposi, Manzoni compie il primo, e sospiratissimo, viaggio a
Firenze per la “risciacquatura dei panni in Arno”.
Non passa giorno, ch’io non
raccolga accidentalmente nel discorso modi di dre, de’quali io sarei andato a
cercare il corrispondente toscano, e non l’avrei trovato, o l’avrei trovato nei
libri disusato, ignorato, morto fradicio. Mi ricordo d’essere stato lì lì per
fare un baratto onde sostituire archibugiata
a schioppettata, ch’io non
aveva mai avuto il piacere di incontrare né in libri di lingua né nei
vocabolarii. Ma guai se mi fossero toccate tutte le schioppettate che ho intese
nominare; né ho mai inteso in quel senso dire altro; e avendone chiesto mi fu
detto che questo è il termine più comune; che archibugiata non sarebbe strano
ma non viene così in su la lingua, e che fucilata
è vocabolo militare.
Vogliamo ricordare a questo punto quanto aveva già scritto M.me de
Stael nel 1816, in
quel suo famoso articolo Sulla utilità
delle traduzioni comparso sulla "Biblioteca italiana", la rivista dei classicisti, che aveva dato il via alle polemiche tra classicisti e
romantici?
I dotti e anche i poeti, in quella età che gli studi risorsero( la Stael si riferisce all'età umanistico-rinascimentale), pensarono a scriver tutti in una medesima lingua, cioè latino, perchè non volevano che ad essere intesi lor bisognasse di venir tradotti. Il che poteva giovare alle scienze, le quali non cercano le grazie dello stile per esprimere i loro concetti. Ma da ciò accadde che che il più degli italiani ignorasse quanta dovizia di scienze abbondasse nel paese loro, perchè il maggior numero di quelli che potevano leggere non sapeva il latino. E d'altra parte, per adoperare questa lingua nelle scienze e nella filosofia bisogna creare vocaboli che ne'romani scrittori ci mancano. Laonde i dotti d'Italia venivano ad usare una lingua che era morta, e non antica. I poeti non uscivano dalle parole e dalla dizione de'classici, e l'Italia, udendo tuttavia sulle rive del Tevere e dell'Arno, e del Sebeto e dell'Adige la favella de'romani ebbe scrittori che furono stimati vicini allo stile di Virgilio e di Orazio, come il Fracastoro, il poliziano, il sannazzaro; dei quali però se non è oggidì spenta la fama, giacciono abbandonate le opere, che dai solo molto eruditi si leggono: tanto è scarsa e breve la gloria fondata sull'imitazione.
[...] E’ opera di natura che la
favella, che è compagna e parte continua di nostra vita, sia anteposta a quella
che da’libri s’impara, e si trova solamente ne’libri.
[…] Havvi oggidì nella letteratura italiana una classe di
eruditi che vanno continuamente razzolando le antiche ceneri per trovarvi forse
qualche granello d’oro; ed un’altra di scrittori senza altro capitale che molta
fiducia nella lor lingua armoniosa, donde raccozzano suoni voti d’ogni
pensiero, esclamazioni, declamazioni, invocazioni che stordiscono gli orecchi,
e trovan sordi i cuori altrui, perché non esalarono dal cuore dello scrittore.