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lunedì 17 ottobre 2011

Cominciamo dallo Zibaldone




Nelle prime pagine dello Zibaldone, la riflessione di Leopardi  sulle illusioni non si scosta molto da quella di Foscolo.

Zibaldone: [51] Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni. Io considero le illusioni come cosa in certo modo reale stante ch’elle sono ingredienti essenziali del sistema della natura umana, e date dalla natura a tutti quanti gli uomini, in maniera che non è lecito spregiarle come sogni di un solo, ma propri veramente dell’uomo e voluti dalla natura, e senza cui la vita nostra sarebbe la più misera e barbara cosa ec. Onde sono necessari ed entrano sostanzialmente nel composto ed ordine delle cose.
[99]Pare un assurdo, e pure è esattamente vero che tutto il reale essendo un nulla, non v’è altro di reale nè altro di sostanza al mondo che le illusioni.
Dopo avere esposto in maniera ampia le proprie riflessioni sulla poesia degli antichi e quella dei moderni nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica ( 1818) Leopardi torna più volte sul problema della poesia moderna e a partire dal 1820 affida alle pagine dello Zibaldone le sue considerazioni:
  Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana e viva umanamente cioè abitata o formata da esseri uguali a noi! Quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero le belle Amadriadi e i fauni e i silvani ec. Ed entrandoci e vedendoci tutto solitudine pur credevi tutto abitato e così de’fonti abitati dalle Naiadi”
L’immaginazione di cui è così ricca e bella la poesia degli antichi deriva per Leopardi dalla condizione naturale dell’uomo, cioè dall’ignoranza; ora, progredendo nella ragione l’uomo si è discostato da quella condizione primitiva, ha accresciuto il proprio sapere ma con esso anche la propria infelicità, che deriva dalla conoscenza e dalla riflessione. Fino al 1820, Leopardi è convinto che la poesia abbia come fine il diletto, che è anche consolazione dagli affanni e dai mali dell’  “arido vero”; per questo essa non deve nutrirsi di “finzioni”, come sarebbe se continuasse accademicamente a sostanziarsi delle  immagini di una mitologia alla quale non si crede più, ma di “illusioni”, cioè della capacità di immaginare “modernamente”. Una lirica come L’infinito, composta nel 1819, è l’espressione di questo immaginare moderno, che nascendo dall’esperienza sensoriale delle cose finite  è insieme riflessione e sentimento del non finito.
La cosiddetta “teoria del piacere”, elaborata nelle pagine dello Zibaldone scritte nel 1820, muove proprio dalla riflessione sull’infinito e sulla noia, ( il taedium latino), che è l’esperienza dolorosa della finitezza.  
“Veniamo alla inclinazione dell'uomo all'infinito. Indipendentemente dal desiderio del piacere, esiste nell'uomo una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono. Considerando la tendenza innata dell'uomo al piacere, è naturale che la facoltà immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione del piacere. E stante la detta proprietà di questa forza immaginativa, ella può figurarsi dei piaceri che non esistano, e figurarseli infiniti 1. in numero, 2. in durata, 3. e in estensione. Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ec. Perciò non è maraviglia 1. che la speranza sia sempre maggior del bene, 2. che la felicità umana non possa consistere se non se nella immaginazione e nelle illusioni. Quindi bisogna considerare la gran misericordia e il gran magistero della natura, che da una parte non potendo spogliar l'uomo e nessun essere vivente, dell'amor del piacere che è una conseguenza immediata e quasi tutt'uno coll'amor proprio e della propria conservazione necessario alla sussistenza delle cose, dall'altra parte non potendo fornirli di piaceri reali infiniti, ha voluto supplire 1. colle illusioni, e di queste è stata loro liberalissima, e bisogna considerarle come cose arbitrarie in natura, la quale poteva ben farcene senza, 2. coll'immensa varietà [168] acciocchè l'uomo stanco o disingannato di un piacere ricorresse all'altro, o anche disingannato di tutti i piaceri fosse distratto e confuso dalla gran varietà delle cose, ed anche non potesse così facilmente stancarsi di un piacere, non avendo troppo tempo di fermarcisi, e di lasciarlo logorare, e dall'altro canto non avesse troppo campo di riflettere sulla incapacità di tutti i piaceri a soddisfarlo. Quindi deducete le solite conseguenze della superiorità degli antichi sopra i moderni in ordine alla felicità. 1. L'immaginazione come ho detto è il primo fonte della felicità umana. Quanto più questa regnerà nell'uomo, tanto più l'uomo sarà felice. Lo vediamo nei fanciulli. Ma questa non può regnare senza l'ignoranza, almeno una certa ignoranza come quella degli antichi. La cognizione del vero cioè dei limiti e definizioni delle cose, circoscrive l'immaginazione. E osservate che la facoltà immaginativa essendo spesse volte più grande negl'istruiti che negl'ignoranti, non lo è in atto come in potenza, e perciò operando molto più negl'ignoranti, li fa più felici di quelli che da natura avrebbero sortito una fonte più copiosa di piaceri. E notate in secondo luogo che la natura ha voluto che l'immaginazione non fosse considerata dall'uomo come tale, cioè non ha voluto che l'uomo la considerasse come facoltà ingannatrice, ma la confondesse colla facoltà conoscitrice, e perciò avesse i sogni dell'immaginazione per cose reali e quindi fosse animato dall'immaginario come dal vero (anzi più, perchè l'immaginario ha forze più naturali, e la natura è sempre superiore alla ragione). Ma ora le persone istruite, quando anche sieno fecondissime d'illusioni le hanno per tali, e le seguono più per volontà che per persuasione, al contrario degli antichi [169] degl'ignoranti de' fanciulli e dell'ordine della natura. 2. Tutti i piaceri, come tutti i dolori ec. essendo tanto grandi quanto si reputano, ne segue che in proporzione della grandezza e copia delle illusioni va la grandezza e copia de' piaceri, i quali sebbene neanche gli antichi li trovassero infiniti, tuttavia li trovavano grandissimi, e capaci se non di riempierli, almeno di trattenerli a bada. La natura non volea che sapessimo, e l'uomo primitivo non sa che nessun piacere lo può soddisfare. Quindi e trovando ciascun piacere molto più grande che noi non facciamo, e dandogli coll'immaginazione un'estensione quasi illimitata, e passando di desiderio in desiderio, colla speranza di piaceri maggiori e di un'intera soddisfazione, conseguivano il fine voluto dalla natura, che è di vivere se non paghi intieramente di quella tal vita, almeno contenti della vita in genere. Oltre la detta varietà che li distraeva infinitamente, e li faceva passare rapidamente da una cosa all'altra senz'aver tempo di conoscerla a fondo, nè di logorare il piacere coll'assuefazione. 3. La speranza è infinita come il desiderio del piacere, ed ha di più la forza se non di soddisfar l'uomo, almeno di riempierlo di consolazione, e di mantenerlo in piena vita. La speranza propria dell'uomo, degli antichi, fanciulli, ignoranti, è quasi annullata per il moderno sapiente. Vedi il pensiero che incomincia Racconta, p. 162.
Del resto il desiderio del piacere essendo materialmente infinito in estensione (non solamente nell'uomo ma in ogni vivente), la pena dell'uomo nel provare un piacere è di veder subito i limiti della sua estensione, i quali l'uomo non molto profondo gli scorge solamente da presso. Quindi è manifesto 1. perchè tutti [170] i beni paiano bellissimi e sommi da lontano, e l'ignoto sia più bello del noto; effetto della immaginazione determinato dalla inclinazione della natura al piacere, effetto delle illusioni voluto dalla natura. 2. perchè l'anima preferisca in poesia e da per tutto, il bello aereo, le idee infinite. Stante la considerazione qui sopra detta, l'anima deve naturalmente preferire agli altri quel piacere ch'ella non può abbracciare. Di questo bello aereo, di queste idee abbondavano gli antichi, abbondano i loro poeti, massime il più antico cioè Omero, abbondano i fanciulli veramente Omerici in questo, (vedi il pensiero Circa l'immaginazione, p. 57. e l'altro p. 100.) gl'ignoranti ec. in somma la natura. La cognizione e il sapere ne fa strage, e a noi riesce difficilissimo il provarne. La malinconia, il sentimentale moderno ec. perciò appunto sono così dolci, perchè immergono l'anima in un abbisso di pensieri indeterminati de' quali non sa vedere il fondo nè i contorni. E questa pure è la cagione perchè nell'amore ec. come ho detto p. 142. Perchè in quel tempo l'anima si spazia in un vago e indefinito. Il tipo di questo bello e di queste idee non esiste nel reale, ma solo nella immaginazione, e le illusioni sole ce le possono rappresentare, nè la ragione ha verun potere di farlo. Ma la natura nostra n'era fecondissima, e voleva che componessero la nostra vita. 3. perchè l'anima nostra odi tutto quello che confina le sue sensazioni. L'anima cercando il piacere in tutto, dove non lo trova, già non può esser soddisfatta. Dove lo trova, abborre i confini per le sopraddette ragioni. Quindi vedendo la bella natura, ama che l'occhio si spazi quanto è possibile. La qual cosa il Montesquieu (Essai sur le goût, De la curiosité, p. 374. 375.) attribuisce alla curiosità. Male. La curiosità non è altro che una determinazione [171] dell'anima a desiderare quel tal piacere, secondo quello che dirò poi. Perciò ella potrà esser la cagione immediata di questo effetto, (vale a dire che se l'anima non provasse piacere nella vista della campagna ec. non desidererebbe l'estensione di questa vista), ma non la primaria, nè questo effetto è speciale e proprio solamente delle cose che appartengono alla curiosità, ma di tutte le cose piacevoli, e perciò si può ben dire che la curiosità è cagione immediata del piacere che si prova vedendo una campagna, ma non di quel desiderio che questo piacere sia senza limiti. Eccetto in quanto ciascun desiderio di ciascun piacere può essere illimitato e perpetuo nell'anima, come il desiderio generale del piacere. Del rimanente alle volte l'anima desidererà ed effettivamente desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni romantiche. La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell'infinito, perchè allora in luogo della vista, lavora l'immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L'anima s'immagina quello che non vede, che quell'albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse da per tutto, perchè il reale escluderebbe l'immaginario.

Dopo la grave malattia agli occhi che nel 1819 lo costringe per mesi al buio, Leopardi annota nello Zibaldone il mutamento avvenuto in lui nel corso di quel lungo tempo di sofferenza e riflessione parlando del suo passaggio “dallo stato antico a quello moderno”; ascoltiamolo:
Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia, e i miei versi erano pieni d'immagini, e delle mie letture poetiche io cercava sempre di profittare riguardo alla immaginazione. Io era bensì sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in poesia non sapeva. Non aveva ancora meditato intorno alle cose, e della filosofia non avea che un barlume, e questo in grande, e con quella solita illusione che noi ci facciamo, cioè che nel mondo e nella vita ci debba esser sempre un'eccezione a favor nostro. Sono stato sempre sventurato, ma le mie sventure d'allora erano piene di vita, e mi disperavano perchè mi pareva (non veramente alla ragione, ma ad una saldissima immaginazione) che m'impedissero la felicità, della quale gli altri credea che godessero. In somma il mio stato era allora in tutto e per tutto come quello degli antichi. [144] Ben è vero che anche allora, quando le sventure mi stringevano e mi travagliavano assai, io diveniva capace anche di certi affetti in poesia, come nell'ultimo canto della Cantica. La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819, dove privato dell'uso della vista, e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso, cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose (in questi pensieri ho scritto in un anno il doppio quasi di quello che avea scritto in un anno e mezzo, e sopra materie appartenenti sopra tutto alla nostra natura, a differenza dei pensieri passati, quasi tutti di letteratura), a divenir filosofo di professione (di poeta ch'io era), a sentire l'infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore corporale, che tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai moderni. Allora l'immaginazione in me fu sommamente infiacchita, e quantunque la facoltà dell'invenzione allora appunto crescesse in me grandemente, anzi quasi cominciasse, verteva però principalmente, o sopra affari di prosa, o sopra poesie sentimentali. E s'io mi metteva a far versi, le immagini mi venivano a sommo stento, anzi la fantasia era quasi disseccata (anche astraendo dalla poesia, cioè nella contemplazione delle belle scene naturali ec. come ora ch'io ci resto duro come una pietra); bensì quei versi traboccavano di sentimento. (1° Luglio 1820.). Così si può ben dire che in rigor di termini, poeti non erano se non gli antichi, e non sono ora se non i fanciulli o giovanetti, e i moderni che hanno questo nome, non sono altro che filosofi. Ed io infatti non divenni sentimentale, se non quando perduta la fantasia divenni insensibile alla natura, e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo.


“ Il dolore o la disperazione che nasce dalle grandi passioni o da qualunque sventura della vita, non è paragonabile all’affogamento che nasce dalla certezza e dal sentimento vivo della nullità di tutte le cose, e dalla impossibilità di essere felice a questo mondo, e dalla immensità del vuoto che si sente nell’anima. Le sventure o d’immaginazione o reali, potranno anche indurre il desiderio della morte, o anche far morire, ma quel dolore ha più della vita, anzi massimamente se proviene da immaginazione e passione, è pieno di vita, e quest’altro dolore ch’io dico è tutto morte”
Ecco qui il massimo di lontananza dalla magnanimità tragica dell’Ortis











lunedì 3 ottobre 2011

Per i ragazzi di 3: dallo Zibaldone di Leopardi


Giacomo Leopardi, da Zibaldone

Anni 1819-20
A questa notazione può rinviarsi il nucleo dell’ispirazione lirica dell’idillio La sera del dì di festa
Dolor mio nel sentire a tarda notte seguente al giorno di qualche festa il canto notturno de’ villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente, ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora passati ch’io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a [51]  farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco.
Sulle Illusioni
[51] Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni. Io considero le illusioni come cosa in certo modo reale stante ch’elle sono ingredienti essenziali del sistema della natura umana, e date dalla natura a tutti quanti gli uomini, in maniera che non è lecito spregiarle come sogni di un solo, ma propri veramente dell’uomo e voluti dalla natura, e senza cui la vita nostra sarebbe la più misera e barbara cosa ec. Onde sono necessari ed entrano sostanzialmente nel composto ed ordine delle cose.
[99]Pare un assurdo, e pure è esattamente vero che tutto il reale essendo un nulla, non v’è altro di reale nè altro di sostanza al mondo che le illusioni.
[100] È cosa osservata degli antichi poeti ed artefici, massimamente greci, che solevano lasciar da pensare allo spettatore o uditore più di quello ch’esprimessero. (Vedi p. 86-87 di questi pensieri) E quanto alla cagione di ciò, non è altra che la loro semplicità e naturalezza, per cui non andavano come i moderni dietro alle minuzie della cosa, dimostrando evidentemente lo studio dello scrittore, che non parla o descrive la cosa come la natura stessa la presenta, ma va sottilizzando, notando le circostanze, sminuzzando e allungando la descrizione per desiderio di fare effetto, cosa che scuopre il proposito, distrugge la naturale disinvoltura e negligenza, manifesta l’arte e l’affettazione, ed introduce nella poesia a parlare più il poeta che la cosa. Del che vedi il mio discorso sopra i romantici, e vari di questi pensieri. Ma tra gli effetti di questo costume, dico effetti e non cagioni, giacchè gli antichi non pensavano certamente a questo effetto, e non erano portati se non dalla causa che ho detto, è notabilissimo quello del rendere l’impressione della poesia o dell’arte bella, infinita, laddove quella de’ moderni è finita. Perchè descrivendo con pochi colpi, e mostrando poche parti dell’oggetto, lasciavano l’immaginazione errare nel vago e indeterminato di quelle idee fanciullesche, che nascono dall’ignoranza dell’intiero. Ed una scena campestre per esempio dipinta dal poeta antico in pochi tratti, e senza dirò così, il suo orizzonte, destava nella fantasia quel divino ondeggiamento d’idee confuse, e brillanti di un indefinibile romanzesco, e di quella eccessivamente cara e soave stravaganza e maraviglia, che ci solea rendere estatici nella nostra fanciullezza. Dove che i moderni, determinando ogni oggetto, e mostrandone tutti i confini, son privi quasi affatto di questa emozione infinita, e invece non destano se non quella finita e circoscritta, che nasce dalla cognizione dell’oggetto intiero, e non ha nulla di stravagante, ma è propria dell’età matura, che è priva di quegl’inesprimibili diletti della vaga immaginazione provati nella fanciullezza. (8. Gennaio 1820.)
Passaggio dallo “stato antico” a quello “moderno”

Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia, e i miei versi erano pieni d'immagini, e delle mie letture poetiche io cercava sempre di profittare riguardo alla immaginazione. Io era bensì sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in poesia non sapeva. Non aveva ancora meditato intorno alle cose, e della filosofia non avea che un barlume, e questo in grande, e con quella solita illusione che noi ci facciamo, cioè che nel mondo e nella vita ci debba esser sempre un'eccezione a favor nostro. Sono stato sempre sventurato, ma le mie sventure d'allora erano piene di vita, e mi disperavano perchè mi pareva (non veramente alla ragione, ma ad una saldissima immaginazione) che m'impedissero la felicità, della quale gli altri credea che godessero. In somma il mio stato era allora in tutto e per tutto come quello degli antichi. [144] Ben è vero che anche allora, quando le sventure mi stringevano e mi travagliavano assai, io diveniva capace anche di certi affetti in poesia, come nell'ultimo canto della Cantica. La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819., dove privato dell'uso della vista, e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso, cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose (in questi pensieri ho scritto in un anno il doppio quasi di quello che avea scritto in un anno e mezzo, e sopra materie appartenenti sopra tutto alla nostra natura, a differenza dei pensieri passati, quasi tutti di letteratura), a divenir filosofo di professione (di poeta ch'io era), a sentire l'infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore corporale, che tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai moderni. Allora l'immaginazione in me fu sommamente infiacchita, e quantunque la facoltà dell'invenzione allora appunto crescesse in me grandemente, anzi quasi cominciasse, verteva però principalmente, o sopra affari di prosa, o sopra poesie sentimentali. E s'io mi metteva a far versi, le immagini mi venivano a sommo stento, anzi la fantasia era quasi disseccata (anche astraendo dalla poesia, cioè nella contemplazione delle belle scene naturali ec. come ora ch'io ci resto duro come una pietra); bensì quei versi traboccavano di sentimento. (1° Luglio 1820.). Così si può ben dire che in rigor di termini, poeti non erano se non gli antichi, e non sono ora se non i fanciulli o giovanetti, e i moderni che hanno questo nome, non sono altro che filosofi. Ed io infatti non divenni sentimentale, se non quando perduta la fantasia divenni insensibile alla natura, e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo.
Desiderio del piacere e inclinazione all’infinito
Veniamo alla inclinazione dell'uomo all'infinito. Indipendentemente dal desiderio del piacere, esiste nell'uomo una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono. Considerando la tendenza innata dell'uomo al piacere, è naturale che la facoltà immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione del piacere. E stante la detta proprietà di questa forza immaginativa, ella può figurarsi dei piaceri che non esistano, e figurarseli infiniti 1. in numero, 2. in durata, 3. e in estensione. Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ec. Perciò non è maraviglia 1. che la speranza sia sempre maggior del bene, 2. che la felicità umana non possa consistere se non se nella immaginazione e nelle illusioni. Quindi bisogna considerare la gran misericordia e il gran magistero della natura, che da una parte non potendo spogliar l'uomo e nessun essere vivente, dell'amor del piacere che è una conseguenza immediata e quasi tutt'uno coll'amor proprio e della propria conservazione necessario alla sussistenza delle cose, dall'altra parte non potendo fornirli di piaceri reali infiniti, ha voluto supplire 1. colle illusioni, e di queste è stata loro liberalissima, e bisogna considerarle come cose arbitrarie in natura, la quale poteva ben farcene senza, 2. coll'immensa varietà [168] acciocchè l'uomo stanco o disingannato di un piacere ricorresse all'altro, o anche disingannato di tutti i piaceri fosse distratto e confuso dalla gran varietà delle cose, ed anche non potesse così facilmente stancarsi di un piacere, non avendo troppo tempo di fermarcisi, e di lasciarlo logorare, e dall'altro canto non avesse troppo campo di riflettere sulla incapacità di tutti i piaceri a soddisfarlo. Quindi deducete le solite conseguenze della superiorità degli antichi sopra i moderni in ordine alla felicità. 1. L'immaginazione come ho detto è il primo fonte della felicità umana. Quanto più questa regnerà nell'uomo, tanto più l'uomo sarà felice. Lo vediamo nei fanciulli. Ma questa non può regnare senza l'ignoranza, almeno una certa ignoranza come quella degli antichi. La cognizione del vero cioè dei limiti e definizioni delle cose, circoscrive l'immaginazione. E osservate che la facoltà immaginativa essendo spesse volte più grande negl'istruiti che negl'ignoranti, non lo è in atto come in potenza, e perciò operando molto più negl'ignoranti, li fa più felici di quelli che da natura avrebbero sortito una fonte più copiosa di piaceri. E notate in secondo luogo che la natura ha voluto che l'immaginazione non fosse considerata dall'uomo come tale, cioè non ha voluto che l'uomo la considerasse come facoltà ingannatrice, ma la confondesse colla facoltà conoscitrice, e perciò avesse i sogni dell'immaginazione per cose reali e quindi fosse animato dall'immaginario come dal vero (anzi più, perchè l'immaginario ha forze più naturali, e la natura è sempre superiore alla ragione). Ma ora le persone istruite, quando anche sieno fecondissime d'illusioni le hanno per tali, e le seguono più per volontà che per persuasione, al contrario degli antichi [169] degl'ignoranti de' fanciulli e dell'ordine della natura. 2. Tutti i piaceri, come tutti i dolori ec. essendo tanto grandi quanto si reputano, ne segue che in proporzione della grandezza e copia delle illusioni va la grandezza e copia de' piaceri, i quali sebbene neanche gli antichi li trovassero infiniti, tuttavia li trovavano grandissimi, e capaci se non di riempierli, almeno di trattenerli a bada. La natura non volea che sapessimo, e l'uomo primitivo non sa che nessun piacere lo può soddisfare. Quindi e trovando ciascun piacere molto più grande che noi non facciamo, e dandogli coll'immaginazione un'estensione quasi illimitata, e passando di desiderio in desiderio, colla speranza di piaceri maggiori e di un'intera soddisfazione, conseguivano il fine voluto dalla natura, che è di vivere se non paghi intieramente di quella tal vita, almeno contenti della vita in genere. Oltre la detta varietà che li distraeva infinitamente, e li faceva passare rapidamente da una cosa all'altra senz'aver tempo di conoscerla a fondo, nè di logorare il piacere coll'assuefazione. 3. La speranza è infinita come il desiderio del piacere, ed ha di più la forza se non di soddisfar l'uomo, almeno di riempierlo di consolazione, e di mantenerlo in piena vita. La speranza propria dell'uomo, degli antichi, fanciulli, ignoranti, è quasi annullata per il moderno sapiente. Vedi il pensiero che incomincia Racconta, p. 162.
Del resto il desiderio del piacere essendo materialmente infinito in estensione (non solamente nell'uomo ma in ogni vivente), la pena dell'uomo nel provare un piacere è di veder subito i limiti della sua estensione, i quali l'uomo non molto profondo gli scorge solamente da presso. Quindi è manifesto 1. perchè tutti [170] i beni paiano bellissimi e sommi da lontano, e l'ignoto sia più bello del noto; effetto della immaginazione determinato dalla inclinazione della natura al piacere, effetto delle illusioni voluto dalla natura. 2. perchè l'anima preferisca in poesia e da per tutto, il bello aereo, le idee infinite. Stante la considerazione qui sopra detta, l'anima deve naturalmente preferire agli altri quel piacere ch'ella non può abbracciare. Di questo bello aereo, di queste idee abbondavano gli antichi, abbondano i loro poeti, massime il più antico cioè Omero, abbondano i fanciulli veramente Omerici in questo, (vedi il pensiero Circa l'immaginazione, p. 57. e l'altro p. 100.) gl'ignoranti ec. in somma la natura. La cognizione e il sapere ne fa strage, e a noi riesce difficilissimo il provarne. La malinconia, il sentimentale moderno ec. perciò appunto sono così dolci, perchè immergono l'anima in un abbisso di pensieri indeterminati de' quali non sa vedere il fondo nè i contorni. E questa pure è la cagione perchè nell'amore ec. come ho detto p. 142. Perchè in quel tempo l'anima si spazia in un vago e indefinito. Il tipo di questo bello e di queste idee non esiste nel reale, ma solo nella immaginazione, e le illusioni sole ce le possono rappresentare, nè la ragione ha verun potere di farlo. Ma la natura nostra n'era fecondissima, e voleva che componessero la nostra vita. 3. perchè l'anima nostra odi tutto quello che confina le sue sensazioni. L'anima cercando il piacere in tutto, dove non lo trova, già non può esser soddisfatta. Dove lo trova, abborre i confini per le sopraddette ragioni. Quindi vedendo la bella natura, ama che l'occhio si spazi quanto è possibile. La qual cosa il Montesquieu (Essai sur le goût, De la curiosité, p. 374. 375.) attribuisce alla curiosità. Male. La curiosità non è altro che una determinazione [171] dell'anima a desiderare quel tal piacere, secondo quello che dirò poi. Perciò ella potrà esser la cagione immediata di questo effetto, (vale a dire che se l'anima non provasse piacere nella vista della campagna ec. non desidererebbe l'estensione di questa vista), ma non la primaria, nè questo effetto è speciale e proprio solamente delle cose che appartengono alla curiosità, ma di tutte le cose piacevoli, e perciò si può ben dire che la curiosità è cagione immediata del piacere che si prova vedendo una campagna, ma non di quel desiderio che questo piacere sia senza limiti. Eccetto in quanto ciascun desiderio di ciascun piacere può essere illimitato e perpetuo nell'anima, come il desiderio generale del piacere. Del rimanente alle volte l'anima desidererà ed effettivamente desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni romantiche. La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell'infinito, perchè allora in luogo della vista, lavora l'immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L'anima s'immagina quello che non vede, che quell'albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse da per tutto, perchè il reale escluderebbe l'immaginario.





sabato 17 settembre 2011

Poliziano 2





La nascita di Venere,( I, 99-101)
Nel tempestoso Egeo in grembo a Teti
si vede il frusto genitale accolto,
sotto diverso volger di pianeti
errar per l'onde in bianca schiuma avolto;
e drento nata in atti vaghi e lieti
una donzella non con uman volto,
da zefiri lascivi spinta a proda,
gir sovra un nicchio, e par che 'l cel ne goda.
 Vera la schiuma e vero il mar diresti,
e vero il nicchio e ver soffiar di venti;
la dea negli occhi folgorar vedresti,
e 'l cel riderli a torno e gli elementi;
l'Ore premer l'arena in bianche vesti,
l'aura incresparle e crin distesi e lenti;
non una, non diversa esser lor faccia,
come par ch'a sorelle ben confaccia.
Giurar potresti che dell'onde uscissi
la dea premendo colla destra il crino,
coll'altra il dolce pome ricoprissi;
e, stampata dal piè sacro e divino,
d'erbe e di fior l'arena si vestissi;
poi, con sembiante lieto e peregrino,
dalle tre ninfe in grembo fussi accolta,
e di stellato vestimento involta.

Poliziano e Botticelli

La Primavera di Botticelli sintetizza diversi episodi e figure dei miti classici; tra questi, quello della ninfa Chloris, inseguita dal vento Zefiro, violentata e poi trasformata in Flora, tramandato dal solo Ovidio nei Fasti ( V, 195 sgg.). Al racconto ovidiano fanno riferimento le tre figure sulla destra del dipinto. Per questo episodio, però, un’altra fonte molto più vicina al momento dell’esecuzione del dipinto è Poliziano, che negli stessi anni (1474-1475) componeva le Stanze per la Giostra  in onore di Giuliano de’Medici e della vittoria da lui riportata nella Giostra che si tenne a Firenze fra l’autunno del 1474 e il gennaio del 1475. La descrizione della ninfa Simonetta , incontrata in un bosco dal giovane e fiero Iulo, che subito si innamora di lei, offre al pittore, amico del Poliziano, il modello a cui rifarsi nella rappresentazione della fanciulla vestita di abiti cortesi con la veste raccolta nella mano e il grembo pieno di fiori.
 Un altro particolare da notare nel dipinto è la resa del movimento attraverso le vesti ondeggianti e trasparenti della Ninfa Chloris e delle tre Grazie, raffigurate nei loro veli impalpabili così come menzionate  da Seneca ( De beneficiis, I,3).
Poliziano, per parte sua, attinge a piene mani a numerose fonti antiche, Omero, Orazio, Ovidio utilizzando il travestimento  mitico per raccontare il giovane eroe moderno, Giuliano, e la donna da lui amata, Simonetta Vespucci.
La stessa contaminazione di fonti vale per La nascita di Venere, in cui Botticelli modifica i due racconti da cui prende spunto, la teofania dalla spuma del mare raccontata da Esiodo (Teogonia, 188-200, 353) e l’arrivo della dea all’isola di Cipro (( Inno omerico ad Afrodite, vv. 3-13) sulla base della descrizione della nascita di Afrodite fatta da poliziano ( Stanze, I, 99-101)

Apparizione di Simonetta ( I, 43- 47 ) 
Candida è ella, e candida la vesta[P1] ,
ma pur di rose e fior dipinta e d'erba;
lo inanellato crin dall'aurea testa
scende in la fronte umilmente superba.
Rideli a torno tutta la foresta,
e quanto può suo cure disacerba;
nell'atto regalmente è mansueta,
e pur col ciglio le tempeste acqueta.
Folgoron gli occhi d'un dolce sereno,
ove sue face tien Cupido ascose;
l'aier d'intorno si fa tutto ameno
ovunque gira le luce amorose.
Di celeste letizia il volto ha pieno,
dolce dipinto di ligustri e rose;
ogni aura tace al suo parlar divino,
e canta ogni augelletto in suo latino.
Con lei sen va Onestate umile e piana
che d'ogni chiuso cor volge la chiave;
con lei va Gentilezza in vista umana,
e da lei impara il dolce andar soave.
Non può mirarli il viso alma villana,
se pria di suo fallir doglia non have;
tanti cori Amor piglia fere o ancide,
Sembra Talia se in man prende la cetra,
sembra Minerva se in man prende l'asta;
se l'arco ha in mano, al fianco la faretra,
giurar potrai che sia Diana casta.
Ira dal volto suo trista s'arretra,
e poco, avanti a lei, Superbia basta;
ogni dolce virtù l'è in compagnia,
Biltà la mostra a dito e Leggiadria.
quanto ella o dolce parla o dolce ride.
Ell'era assisa sovra la verdura,
allegra, e ghirlandetta avea contesta
di quanti fior creassi mai natura,
de' quai tutta dipinta era sua vesta.
E come prima al gioven puose cura,
alquanto paurosa alzò la testa;
poi colla bianca man ripreso il lembo,
levossi in piè con di fior pieno un grembo.

   


                                        


 [P1]Cfr. La Primavera di Botticelli, la fanciulla, tradizionalmente identificata con la ninfa Flora, in abiti cortesi, col grembo ricolmo di fiori e la mano che li mescola

domenica 24 aprile 2011

SVOLGIMENTO DI UN ARTICOLO DI GIORNALE ( TIPOLOGIA B ) DI ARGOMENTO ARTISTICO-LETTERARIO


TIPOLOGIA B. SAGGIO BREVE O ARTICOLO DI GIORNALE
AMBITO ARTISTICO-LETTERARIO

Argomento: Il presente nella parola dei poeti.  
Fortunato vecchio, qui tra noti fiumi
E sacre fonti godrai una frescura ombrosa:
da un lato la siepe sul vicino confine di sempre,
delibata dalle api iblee nel fiore del salice,
spesso con lieve sussurro ti concilierà il sonno
[…
 ]
Noi invece di qui andremo tra gli Africani assetati
[…]
Un empio soldato possederà maggesi così coltivati? Un barbaro queste messi? Ecco dove la discordia
Ha trascinato gli sventurati cittadini. ( Virgilio Bucoliche, I)




O Alberto tedesco ch’abbandoni
Costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ‘l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ‘l tuo successor temenza n’aggia!
Ch’avete tu e ‘l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ‘l giardin de lo ‘mperio sia diserto.
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monadi e Filippeschi, uom senza cura:
color già tristi, e questi con sospetti.   ( Purgatorio, VI)




Ei fu. Siccome immobile
Dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,(1)                                       1. spiro: anima
così percossa, attonita,
la terra al nunzio sta.
Muta pensando all’ultima
Ora dell’uom fatale;(2)                                    2. uom fatale: Napoleone
né sa quando una simile
orma di piè mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.
...
Dall’Alpi alle Piramidi,
dal Manzanarre al Reno
di quel securo (3) il fulmine                             3. quel securo: quell’orgoglioso
tenea dietro al baleno;
scoppiò da Scilla al Tanai,
dall’uno all’altro mar.

Fu vera gloria? Ai posteri
L’ardua sentenza: nui
Chiniam la fronte al Massimo
Fattor, (4)che volle in lui                   4. Massimo fattor: Dio
Del creator suo spirito
Più vasta orma stampar.    ( A.Manzoni, Il 5 maggio)




Di queste case
Non è rimasto
Che qualche
brandello di muro

Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto

Ma nel cuore
Nessuna croce manca

E’ il mio cuore
Il paese più straziato         ( G.Ungaretti, San Martino del Carso, 1916)





Venite madri e padri
Da tutto il paese
E non criticate
Quello che non potete capire,
i vostri figli e le vostre figlie
non li potete comandare
la vostra vecchia strada
sta rapidamente invecchiando
andatevene, vi prego, dalla nuova,
se non potete anche voi dare una mano
perché i tempi stanno cambiando  ( Bob Dylan,. I tempi stanno cambiando1964)




Ad Auschwitz c’era la neve
il fumo saliva lento
nel freddo giorno d’inverno
e adesso sono nel vento.
[…]
Io chiedo come può un uomo
uccidere un suo fratello
eppure siamo a milioni
in polvere qui nel vento.

Ma ancora tuona il cannone
ancora non è contento
di sangue la belva umana
e ancora ci porta il vento.

Io chiedo quando sarà
che l’uomo potrà imparare
a vivere senza ammazzare






La poesia e il peso terreno dell’hic et nunc

La poesia ha questo di bello: può dire il dolore, la ferocia, la viltà, l’orrore della guerra, lo strazio dell’esilio, l’arroganza cinica dei potenti, e ogni cosa perde il peso terreno dell’hic et nunc ma non la sua essenza di verità[P1] .
  Virgilio racconta l’esproprio delle terre subito dagli agricoltori italici, me non ci sono le grida, le imprecazioni, il rotolio delle ruote dei carri che trasportano i miseri averi dei profughi, mentre i soldati di Cesare li spingono e gridano. – E dove andrà Melibeo con il piccolo gregge che ha potuto portare via con sé? – Virgilio conosceva tutto questo, lo aveva visto, lo aveva temuto per sé; quasi miracolosamente, per l’interessamento di un “giovane dio”, vi si era potuto sottrarre. Erano i tempi agitati delle guerre civili, dell’incertezza, del crollo dello stato, tempi terribili per ognuno a cui è toccato viverli, e non importa se è l’antica res publica, la città comunale, l’Italia degli antifascisti,  la Palestina o l’Africa dei disperati di oggi. Noi li vediamo, ammassati, vocianti, sfiniti, minacciosi, li temiamo per le nostre sicurezze – è il peso della vita terrena -. Ma sottraendo a Melibeo tutto questo per lasciargli solo le ultime parole scambiate con Titiro, Virgilio ammonisce a ricordare che ogni profugo, ogni esiliato, ogni vittima della inimicizia e della forza è anche un Melibeo, un povero uomo in fuga che porta con sé le ombre della propria casa[P2] .
 E’ proprio questo che rende la letteratura parola di tutti. Quando la realtà, angosciosa, esaltante o enigmatica che sia, fonte di dolore o di speranza nell’esperienza storica dei singoli, si affaccia nella parola letteraria, sempre essa cessa di essere esperienza altrui – di un uomo, di una società, di un’epoca – e diventa esperienza universale. Il presente dei poeti parla al nostro presente[P3] 
  L’ira, lo sdegno di Dante per l’Imperatore  incurante del destino dell’Italia abbandonata alle sue lotte interne, all’avidità degli uomini e alla corruzione morale, che gli fa gridare “ Ahi serva Italia, di dolore ostello/ nave senza nocchiero in gran tempesta,/ non donna di province ma bordello!” ci evoca atmosfere aspre di violenza e sangue al tempo dei comuni. Ma quante volte, e alla coscienza di quanti,  può essere capitato di ripensare proprio a questi versi, di fronte al caos della politica e della società italiana o in un qualunque altro momento di disordine e discordia civile[P4] .

 [P1]LEAD INTRODUTTIVO
 [P2]FOCUS E AMPLIAMENTO
 [P3]SEQUENZA DI TRANSIZIONE E NUOVO LEAD
 [P4]FOCUS E AMPLIAMENTO

 

 

 

 

 

L’ARTICOLO DI GIORNALE


L’articolo di giornale è un testo che comunica una notizia attuale o di interesse pubblico ( un fatto, un argomento) o la commenta approfondendone il contenuto ed esprimendo una opinione in merito.
Si possono dunque riconoscere due tipi fondamentali di articolo:
  1.  la scrittura giornalistica informativa, il cui scopo è comunicare e descrivere in modo oggettivo un fatto sul quale il lettore è all’oscuro
  2. la  scrittura giornalistica di commento, che si rivolge a un lettore già informato dei fatti e il cui scopo è riflettere e far riflettere; in questo caso l’articolo è più argomentativo che informativo

N.B:  Ciò che distingue l’articolo di giornale dal saggio breve è il suo rapporto con l’attualità. Ogni articolo, anche quello di opinione e commento, ha origine da un evento recente che, in un certo senso, costituisce l’occasione per trattare quel determinato argomento; esso può anche essere una Mostra, la pubblicazione ( o ri-pubblicazione) di un determinato libro, un convegno ecc.
Il testo giornalistico deve quindi iniziare con un collegamento a questo fatto attuale.

In fase di progettazione le prime operazioni sono comuni al lavoro richiesto per il saggio breve: lettura attenta e comprensione dei documenti, schedatura sintetica , stabilire relazione fra i testi proposti ( analogia, opposizione ecc.) , richiamare le proprie conoscenze sull’argomento ecc.
Bisogna quindi stabilire quale tipo di articolo si vuole produrre:
  • se l’articolo è di cronaca, bisogna strutturare le informazioni secondo il principio delle 5 W  e fornire lo sfondo dell’evento ( background)
  • se l’articolo è di opinione , bisogna stabilire la tesi e individuare gli argomenti con cui la si vuole sostenre


 

martedì 19 aprile 2011

IMPOSTIAMO LA SCALETTA PER UNA ANALISI DI TESTO


ANALISI DI TESTO


Tre volte il cavallier la donna stringe
Con le robuste braccia, ed altrettante
Da que’nodi tenaci ella si scinge,
nodi di fer nemico e non d’amante.
Tornano al ferro, e l’uno e l’altro il tinge
Con molte piaghe, e stanco ed anelante
E questi e quegli al fin pur si ritira,
e dopo lungo faticar respira.
[…]
Ma ecco omai l’ora fatale è giunta
Che ‘l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
Che vi s’immerge e ‘l sangue avido beve;
e la veste, che d’or vago trapunta
le mammelle stringea tenera e leve,
 l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente
morirsi, e ‘l piè le manca egro e languente.

Segue egli la vittoria, e la trafitta
Vergine minacciando incalza e preme.
Ella, mentre cadea, la voce afflitta
Movendo, disse le parole estreme;
parole ch’a lei novo un spirto ditta,
spirto di fè, di carità e di speme:
virtù ch’or Dio le infonde , e se rubella
in vita fu, la vuole in morte ancella.
( Gerusalemme Liberata, XII, 57, 64-65)


Analisi e Interpretazione

-          Qual è, secondo te, la caratteristica principale della struttura di questo episodio?
-          Mediante una calcolatissima collocazione di alcune parole e l’utilizzo delle figurer retoriche, Tasso
costruisce la scena di questo duello riproponendo il tema classico Amore e Morte. Rintraccia tali scelte stilistiche e analizzale proponendo una interpretazione complessiva dell’episodio.


Approfondimento

Come si intrecciano i temi dell’amore e della guerra nella  Gerusalemme Liberata?
Come viene presentata nel poema la passione d’amore?



Leggendo attentamente e più di una volta il testo, comincerai sicuramente a osservare alcune cose: i temi, le figure retoriche, il ritmo della narrazione. Annota qualunque osservazione. Leggi quindi attentamente una per una le richieste e, sulla base di ognuna e tenendone conto, rileggi il testo.Poi comincia a costruire una mappa di idee.

Guarda l’esempio riportato.



SCALETTA

-         Episodio costruito su un movimento che alterna tensione e distensione e su antitesi retoriche che si fanno figure di un conflitto tragico:
stringe/scinge
tornano al ferro…questi e quegli pur si ritira
Ella già sente morirsi…segue egli la vittoria
E ‘l ‘piè le manca egro e languente/egli…minacciando incalza e preme
Rubella in vita… in morte ancella



-         L’amore impossibile : Tancredi cristiano/ Clorinda pagana, inaccessibile all’amore. E’ la donna guerriera: la corazza che la difende dai colpi nemici la protegge anche nella sua femminilità repressa e sconosciuta.

-         La scena del duello ha una intensa carica erotica; la pulsione sessuale, vissuta da Tasso come colpa, trova espressione nell’ambiguità della scena: il languore amoroso, l’abbandono dei sensi nell’incontro degli amanti che si cercano per unirsi si trasforma nello scontro aggressivo dei nemici e nel languore del corpo ferito che si abbandona alla morte.

-         Le parole dei due generi: maschile         /       femminile
                                

   “ Il cavalliere”                        
   Spinge egli il ferro
 nel bel sen di punta
Che vi s’immerge      
e ‘l sangue avido beve;
Segue egli la vittoria

“La donna”
“la veste che d’or vago trapunta   
le mammelle stringea”
“ella già sente/morirsi”
       “ la trafitta vergine”
       “Ella, mentre cadea”

                                                                          
     -  Amore rappresenta uno dei principali elementi di disturbo dell’azione guerresca:
Ø     i cavalieri innamorati di Armida si allontanano dal campo crociato
Ø     Rinaldo viene tenuto lontano dal combattimento nel giardino di Armida
Ø     Tancredi, vinto dall’amore e dal dolore, non riesce ad espugnare la selva.

Sempre l’amore si configura come devianza ed  errore; deve pertanto essere dissimulato ( Erminia), nascosto, represso, censurato.
Se il fine positivo della azione è la conquista di Gerusalemme, l’amore che vi si oppone è il negativo.
La conquista di Gerusalemme è la vittoria della ragione sul senso, della ideologia controriformistica sull’edonismo rinascimentale.