E. De Amicis, Come lavora Zola
La pagina che segue riporta alcuni momenti di una lunga conversazione che De Amicis ebbe, in casa del grande romanziere naturalista, in occasione di un suo viaggio a Parigi.
Ecco, - disse – come faccio il romanzo. Non lo faccio affatto. Lascio che si faccia da sé. Io non so inventare dei fatti; mi manca assolutamente questo genere d’immaginazione. Se mi metto a tavolino per cercare un intreccio, una tela qualsiasi di romanzo, sto lì anche tre giorni a stillarmi il cervello, colla testa fra le mani, ci perdo la bussola e non riesco a nulla. Perciò ho preso la risoluzione di non occuparmi mai del soggetto. Comincio a lavorare al mio romanzo, senza sapere né che avvenimenti i si svolgeranno, né che personaggi vi avranno parte, né quale sarà il principio e la fine. Conosco soltanto il mio protagonista, il mio Rougon o Macquart, uomo o donna; che è una conoscenza antica. Mi occupo anzi tutto di lui, medito sul suo temperamento, sulla famiglia da cui è nato, sulle prime impressioni che può aver ricevute, e sulla classe sociale in cui ho stabilito che debba vivere. Questa è la mia occupazione più importante: studiare la gente con cui questo personaggio avrà che fare, i luoghi in cui dovrà trovarsi, l’aria che dovrà respirare, la sua professione, le sue abitudini, fin le più insignificanti occupazioni a cui dedicherà i ritagli della sua giornata. Mettendomi a studiare queste cose, mi balena subito alla mente una serie di descrizioni che possono trovar luogo nel romanzo, e che saranno come le pietre miliari della strada che debbo percorrere. Ora, per esempio, sto scrivendo Nana: una cocotte. Non so ancora affatto che cosa seguirà di lei. Ma so già tutte le descrizioni che ci saranno nel mio romanzo. Mi son domandato prima di ogni cosa: - Dove va una cocotte? Va ai teatri, alle prime rappresentazioni. Sta bene. Ecco cominciato il romanzo. Il primo capitolo sarà la descrizione d’ una prima rappresentazione in uno dei nostri teatri eleganti. Peer far questo bisogna che studi. Vado a parecchie prime rappresentazioni. Domani sera vado alla Gaité. Studio la platea, i palchi, il palcoscenico; osservo tutti i più minuti particolari della vita delle scene; assisto alla toeletta d’una attrice, e tornato a casa, abbozzo la mia descrizione (…)
Dopo due o tre mesi di questo studio, mi sono impadronito di quella maniera di vita: la vedo, la sento, la vivo nella mia testa, per modo che son sicuro di dare al mio romanzo il colore e il profumo proprio di quel mondo. Oltrecchè, vivendo per qualche tempo, come ho fatto, in quella cerchia sociale, ho conosciuto delle persone che vi appartengono, ho inteso raccontare dei fatti veri, so quello che vi suole accadere, ho imparato il linguaggio che vi si parla, ho in capo una quantità di tipi, di scene, di frammenti di dialogo, di episodi d’avvenimenti, che formano come un romanzo confuso di mille pezzi staccati ed informi. Allora mi riman da fare quello che per me è più difficile: legare con un solo filo, alla meglio, tutte quelle reminiscenze e tutte quelle impressioni sparse. E’ un lavoro quasi sempre lungo. Ma io mi ci metto flemmaticamente, e invece d’adoperarci l’immaginazione, ci adopero la logica. Ragiono tra me, e scrivo i miei soliloqui, parola per parola, tali e quali mi vengono, in modo che, letti da un altro, parrebbero una stranissima cosa. Il tale fa questo. Che cosa nasce solitamente da un fatto di questa natura? Quest’altro fatto. Quest’altro fatto è tale che possa interessare quell’altra persona? Certamente. E’dunque logico che quest’altra persona reagisca in quest’altra maniera. E allora può intervenire un nuovo personaggio; quel tale, per esempio, che ho conosciuto in quel tal luogo, quella sera. Cerco di ogni più piccolo avvenimento le conseguenze immediate; quello che deriva logicamente, naturalmente, inevitabilmente dal carattere e dalla situazione dei miei personaggi.
( Da Ricordi di Parigi,Milano, Treves, 1882)