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mercoledì 15 febbraio 2012

Per i ragazzi di 3^


E. De Amicis, Come lavora Zola

La pagina che segue riporta alcuni momenti di una lunga conversazione che De Amicis ebbe, in casa del grande romanziere naturalista, in occasione di un suo viaggio a Parigi.

Ecco, - disse – come faccio il romanzo. Non lo faccio affatto. Lascio che si faccia da sé. Io non so inventare dei fatti; mi manca assolutamente questo genere d’immaginazione. Se mi metto a tavolino per cercare un intreccio, una tela qualsiasi di romanzo, sto lì anche tre giorni a stillarmi il cervello, colla testa fra le mani, ci perdo la bussola e non riesco a nulla. Perciò ho preso la risoluzione di non occuparmi mai del soggetto. Comincio a lavorare al mio romanzo, senza sapere né che avvenimenti i si svolgeranno, né che personaggi vi avranno parte, né quale sarà il principio e la fine. Conosco soltanto il mio protagonista, il mio Rougon o Macquart, uomo o donna; che è una conoscenza antica. Mi occupo anzi tutto di lui, medito sul suo temperamento, sulla famiglia da cui è nato, sulle prime impressioni che può aver ricevute, e sulla classe sociale in cui ho stabilito che debba vivere. Questa è la mia occupazione più importante: studiare la gente con cui questo personaggio avrà che fare, i luoghi in cui dovrà trovarsi, l’aria che dovrà respirare, la sua professione, le sue abitudini, fin le più insignificanti occupazioni a cui dedicherà i ritagli della sua giornata. Mettendomi a studiare queste cose, mi balena subito alla mente una serie di descrizioni che possono trovar luogo nel romanzo, e che saranno come le pietre miliari della strada che debbo percorrere. Ora, per esempio, sto scrivendo Nana: una cocotte. Non so ancora affatto che cosa seguirà di lei. Ma so già tutte le descrizioni che ci saranno nel mio romanzo. Mi son domandato prima di ogni cosa: - Dove va una cocotte? Va ai teatri, alle prime rappresentazioni. Sta bene. Ecco cominciato il romanzo. Il primo capitolo sarà la descrizione d’ una prima rappresentazione in uno dei nostri teatri eleganti. Peer far questo bisogna che studi. Vado a parecchie prime rappresentazioni. Domani sera vado alla Gaité. Studio la platea, i palchi, il palcoscenico; osservo tutti i più minuti particolari della vita delle scene; assisto alla toeletta d’una attrice, e tornato a casa, abbozzo la mia descrizione (…)
Dopo due o tre mesi di questo studio, mi sono impadronito di quella maniera di vita: la vedo, la sento, la vivo nella mia testa, per modo che son sicuro di dare al mio romanzo il colore e il profumo proprio di quel mondo. Oltrecchè, vivendo per qualche tempo, come ho fatto, in quella cerchia sociale, ho conosciuto delle persone che vi appartengono, ho inteso raccontare dei fatti veri, so quello che vi suole accadere, ho imparato il linguaggio che vi si parla, ho in capo una quantità di tipi, di scene, di frammenti di dialogo, di episodi d’avvenimenti, che formano come un romanzo confuso di mille pezzi staccati ed informi. Allora mi riman da fare quello che per me è più difficile: legare con un solo filo, alla meglio, tutte quelle reminiscenze e tutte quelle impressioni sparse. E’ un lavoro quasi sempre lungo. Ma io mi ci metto flemmaticamente, e invece d’adoperarci l’immaginazione, ci adopero la logica. Ragiono tra me, e scrivo i miei soliloqui, parola per parola, tali e quali mi vengono, in modo che, letti da un altro, parrebbero una stranissima cosa. Il tale fa questo. Che cosa nasce solitamente da un fatto di questa natura? Quest’altro fatto. Quest’altro fatto è tale che possa interessare quell’altra persona? Certamente. E’dunque logico che quest’altra persona reagisca in quest’altra maniera. E allora può intervenire un nuovo personaggio; quel tale, per esempio, che ho conosciuto in quel tal luogo, quella sera. Cerco di ogni più piccolo avvenimento le conseguenze immediate; quello che deriva logicamente, naturalmente, inevitabilmente dal carattere e dalla situazione dei miei personaggi.
( Da Ricordi di Parigi,Milano, Treves, 1882)

Per i ragazzi di 3^


E' TUTTA QUESTIONE DI STILE

Flaubert a Louise Colet, 19 settembre 1852
(in riferimento all'episodio dell'arrivo di Emma e Charles per la prima volta a Yonville)

Quanto mi fa ammattire la mia Bovary [...] Per questa scena d'albergo mi ci vorranno forse tre mesi, almeno così penso. A volte mi vien voglia di piangere, tale è il sentimento della mia impotenza. MA, piuttosto di eludere le difficoltà, voglio creparci sopra. Devo far sentire nella medesima conversazione cinque o sei persone ( che parlano) , molte altre ( di cui si parla), il luogo dove sono, l'intero paese, descrivendo fisicamentee persone e cose; e insieme mostrare una signora e un signore che, pre simpatia di gusti, cominciano a innamorarsi un po' l'uno dell'altro. Almeno avessi un po' di spazio! Invece tutto deve essere rapido senza secchezza e sviluppato senza prolissità.



Flaubert a Louise Colet, 15 gennaio 1853

Ho impiegato cinque giorni a scrivere una pagina. [...] Quel che mi tormenta nel mio libro è l'elemento divertente, che è mediocre. Mancano i fatti. Io sostengo che le idee sono fatti. Con esse, lo so bene, è più difficile interessare, ma se non ci si riesce la colpa è dello stile. Ci sono così cinquanta pagine di fila senza un movimento. E' una raffigurazione continua di una vita borghese e di un amore inattivo: amore tanto più difficile da rappresentare in quanto è a un tempo timido e profondo, ma ahimè! Senza frenesie interne perchè il mio messere è d'indole temperata. Già nella prima parte ho avuto da fare qualcos di analogo: il mio marito ama sua moglie nella stessa guisa del mio amante. Sono due mediocri, che vivono nello steso ambiente, ma che vanno differenziati. Se la cosa riuscirà, sarà, credo, molto forte, perchè si tratta di dipingere tono su tono e senza toni che facciano spicco.




Flaubert a Louise Colet,metà aprile 1853
( in riferimento al colloquio di Emma con il prete, poco prima che Léon parta per Parigi)

Finalmente comincio a vederci un po' chiaro nel mio dannato dialogo col curato... Voglio esprimere questa situazione: la mia donnina, in un accesso di religiosità, va in chiesa, trova sulla porta il curato, il quale in un dialogo ( senza un soggetto determinato ) si mostra talmente stupido, piatto, inetto, taccagno, che lei se ne torna disgustata e indevota; e il mio curato è un bravissimo uomo,anzi eccellente, ma pensa soltanto al fisico ( alle sofferenze dei poveri, alla mancanza di pane o legna), e non indovina i vacillamenti morali, le vaghe aspirazioni mistiche; è castissimo e osserva tutti i doveri. La scena deve occupare sei o sette pagine al massimo e senza una riflessione né un'analisi ( tutto in dialogo diretto)