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lunedì 14 maggio 2012

Pascoli e D'Annunzio: poetiche a confronto


Partiamo dalle Indicazioni di Poetica →  D’ Annunzio;  “Il verso è tutto “

→Pascoli, da  Il fanciullino “ Poesia è trovare nelle cose, come ho a dire?,  Il loro sorriso e la loro lacrima”

,                                                                                                                                                  

Nella generale crisi che investe la tradizionale figura “ eroica” del poeta ( cfr. Perdita d’aureola  e L’Albatros di Baudelaire, i poeti  del cosiddetto “ Decadentismo” cercano personali risposte per ritrovare le ragioni e i caratteri di una nuova poesia.
  Giudicata insufficiente la prospettiva positivista, disinteressata a tutto ciò che non poteva essere oggetto di conoscenza positiva, e angusta la “ borghesizzazione” della vita, che banalizza e consuma i miti tradizionali della Bellezza, dell’Arte, della Virtù, il poeta vuole sottrarsi alla prosaicità vuota o retorica del vivere moderno facendo della poesia un luogo di esperienze stra-ordinarie, di illuminazione acuta e penetrante del mistero del reale  o di celebrazione estatica e vitalistica di istanti unici nei quali cogliere l’essenza segreta della natura e della vita.  
  Sia la poetica del “Superuomo” di D’Dannunzio che quella del “Fanciullino” di Pascoli esprimono, in modi diversi,  una concezione nuova della poesia come capacità intuitiva, evocativa, simbolica. La poesia di Pascoli e D’Annunzio non vuole dare un ordine al mondo e per questo assesta un colpo molto forte alle strutture logico-razionali a cui era rimasta pienamente ancorata la lingua poetica anche nelle esperienze romantiche.Finchè infatti la lingua rimane quella del pensiero razionale, cioè di un pensiero classificatorio, sistematico, che ordina e costruisce, il mondo nella sua essenza, nel suo mistero profondo risulta inattingibile alla lingua.  La poesia è piuttosto “ visione” , esperienza estatica o di ebbrezza vitalistica, sguardo intuitivo piuttosto che logico.
  Comune  a entrambi la tensione a muoversi su piani diversi da quelli ormai consumati del linguaggio poetico tradizionale , e sarà o la straripante ricchezza lessicale di D’Annunzio, tutta però monocorde e monostilista, impostata sul prezioso e il raro, ( vd. il fitto ricorso a latinismi, arcaismi ec.-  " aulire" per " profumare", " vestimenti" per " vesti"- ,  o il plurilinguismo pascoliano che annette alla dignità di lingua poetica anche i vocaboli più umili, i termini tecnici della botanica e dell'ornitologia ( mai la voce media, petrarchesca, per così dire - " augelli" o più comunemente "uccelli" - ma " rondini, zirli, passeri ecc"), il significante puro con iuntenti fonosimbolici ( " Chiù, videvitt, gre-gre di ranelle ecc.")  e arriva a includere perfino il latin. 

 La sintassi poetica ora si dilata in catene comparativo- analogiche o si sfrangia nella paratassi impressionistica e nella nominalizzazione.
A D’Annunzio risale il primo esperimento su larga scala di rottura degli schemi strofici, riplasmati in sempre nuovi aggregati in cui il verso può finire per coincidere con la parola singola, dilatata nel suo potere evocativo
Le innovazioni pascoliane sono invece fondamentalmente  di due tipi:
1)      sul piano lessicale si ha l’immissione di tutta una serie di parole quotidiane, umili e tecniche  ( “ ed ergersi il mandorlo e il melo/ parevano a meglio vederla “; “ quando partisti come son rimasta ! / come l’aratro in mezzo alla maggese “
 2) sul piano sintattico si assiste alla rottura delle volute eloquenti, della cantabilità e della fluidità legata del discorso aulico con effetti innovatori quali la frammentazione impressionistica, paratattica e  nominale





  G.Pascoli , L'assiuolo

Dov’era la luna? ché il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù...

Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù...

Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?...);
e c’era quel pianto di morte...
chiù...


Analisi

La poesia è costituita da tre strofe di sette novenari legati da schemi regolari di rime (ABABCDCd),con ultimo versicolo costituito dalla voce onomatopeica “ chiù” che riprende la finale tronca di ogni sesto verso ( “laggiù…chiù; fu…chiù; più…chiù ). Diversa invece la struttura del periodo di ogni strofa: si passa dall’ampio giro sintattico dei primi quattro versi, dilatato oltre i termini dell’unità metrica con l’enjambement e l’iperbato ( Dov’era la luna? Che il cielo/ notava in un’alba di perla,/ ed ergersi il mandorlo e il melo/parevano a meglio vederla ) alle coppie di versi della seconda strofa, in successione paratattica e triplice anafora del verbo di sensazione (“sentivo…sentivo…sentivo”) che, insieme alla rima interna di “ sentivo il cullARE del mARE “ e alla sonorità onomatopeica e allitterante di “ sentivo un FRu FRu TRa le Fratte”, rompe una troppo rigida simmetria, recuperando sul versante fonico una continuità franta invece sul piano della sintassi (“Le stelle lucevano rare/ tra mezzo alla nebbia di latte:/ sentivo il cullare del mare,/sentivo un fru fru tra le fratte;/ sentivo nel cuore un sussulto,/com’eco d’un grido che fu). L’ultima strofa inverte invece lo schema della prima con la sequenza 2 + 4+1 , ma ciò che vi è di più notevole in essa è il perdersi della referenza naturalistica attraverso il  procedimento analogico che equipara il suono emesso dalle cavallette a quello misterioso dei “sistri d’argento” – antichi strumenti musicali egizi connessi ai culti misterici di Iside, dea dell’oltretomba  -  e la rarefazione sintattica prodotta dall’interrogativa tra parentesi ( “tintinni a invisibili porte/ che forse non s’aprono più?) e dalla serie dei puntini di sospensione che rinviano a un inconoscibile, a uno spazio di silenzio non più raggiungibile dalla parola.
    Ed eccoci giunti al nucleo originario dell’ispirazione lirica di Pascoli, al centro tematico di  una poesia che come tante altre, soprattutto di Myricae,sembra parlare della natura, raffigurare con movenze impressionistiche un paesaggio campestre colmo di presenze, di rumori e luci e poi, con una serie di  trapassi analogici e giustapposizione di immagini,  da quello estrae qualcosa di segreto,  non definito, non visibile se non al “sussulto” del cuore, che è poi l’inesauribile capacità del “fanciullino” di far parlare le cose.
    Il discorso lirico si sviluppa unitariamente,  nel progressivo precisarsi di una percezione acustica che si dà inizialmente come registrazione di un dato spazialmente  localizzato, per quanto in modo indefinito ( “veniva una voce dai campi:/ chiù”); poi, man mano che si confonde con altri suoni (sentivo il cullare del mare/ sentivo un fru fru tra le fratte”) e si allontana  nello spazio esterno, (“sonava lontano il singulto”) la “voce”  comincia a lasciarsi individuare in un luogo già tutto interiore e diventa questa volta “il singulto”, con significativo trapasso dall’articolo indeterminativo a quello determinativo, per rendersi finalmente palese nel “qui e ora” riconoscibilissimo di“quel pianto di morte”, che la specificazione oggettiva sigla come orizzonte esistenziale dell’uomo raggiunto dalla rivelazione del suo destino.