Qualche osservazione sul I capitolo dei Promessi Sposi e qualcos’altro
L’inizio dell’azione è collocata il 7 novembre del 1628.
Dopo avere fissato Don Abbondio, nella sua abituale
passeggiata, “ per una di queste stradette”, e avere posto nel suo campo visivo
i due bravi che lo stanno aspettando, il
racconto viene già interrotto da una prima digressione nella quale si dà conto
delle Gride pubblicate contro i Bravi.
La prima grida menzionata è del 1583; ne vengono poi subito
dopo ricordate altre (1593, 1598, 1600, 1612, 1618).
Sono tutte le disposizioni di legge che, come si vede dalla
successione delle date, restano inevase perché il potere legale non vuole
operare realmente contro il potere reale dei vari signori e signorotti. Quelle
delle gride sono dunque parole vuote, lettera morta.
Allorché la narrazione riprende, con il primo scambio di
battute fra il curato e i due bravi, che
sono anche le prime pronunciate da personaggi del romanzo : ( “
Signor curato” disse un di que’due, piantandogli gli occhi in faccia. “ Cosa
comanda?” rispose subito don Abbondio),
ci viene subito mostrato quali sono i meccanismi che regolano i rapporti
sociali e qual è il rapporto reale fra il diritto e la forza.
Nella succitata
digressione si esercita l’ironia del narratore che, nello stesso momento in cui
riferisce le parole della legge vi introduce la sua intenzione comunicativa “
altra” che deforma grottescamente la prima, svelandone la vuota ridondanza.
“ All’udire parole di un tanto signore, così
gagliarde e sicure, e accompagnate da tali ordini, viene una gran voglia di
credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per
sempre. Ma la testimonianza di un signore non meno autorevole ci obbliga a
credere tutto il contrario.”
Ed ecco nuova grida dell’ “Illustrissimo ed Eccellentissimo
Signore, il Signor Don Pietro
Enriques de Acevedo, Conte di Fuentes, Capitano e Governatore dello Stato di
Milano” , a proposito della quale così commenta il narratore:
“ Convien credere però che non ci si mettesse
con tutta quella buona voglia che sapeva impiegare nell’ordir cabale, e nel
suscitar nemici al suo gran nemico Enrico IV; giacchè per questa parte, la
storia attesta come riuscisse ad armare contro quel re il duca di Savoia, a cui
fece perder più d’una città; come riuscisse a far congiurare il duca di Biron,
a cui fece perdere la testa; ma per ciò che riguarda quel seme tanto pernicioso
de’bravi, certo è che esso continuava a germogliare il 22 settembre dell’anno 1612”
Attraverso il procedimento
dell’ironia viene creata una distanza critica tra l’oggetto rappresentato( il
600) e lo sguardo su di esso( il
narratore ottocentesco), e ognuno è presentato nella sua autonomia di realtà.
Il romanzo orchestra in questo modo una pluralità di voci che sono altrettanti
“punti di vista sul mondo” .
Abbiamo visto sopra una
partitura doppia divisa tra la parola- documento ( le grida) e la parola-
commento ( il narratore), che trasforma in problema la certezza dei fatti.
Ma la dialogicità opera anche
a distanza, nelle parole dei personaggi adattate a referenti diversi, in una relazione tra le parole e le cose variabile a seconda delle esperienze e dei
vissuti individuali. Così, per esempio, quelle che l’Anonimo definiva in base
all’appartenenza sociale “genti meccaniche e di picciol affare” , Renzo, Lucia,
Agnese, sono i “ poveri cari tribolati” che padre Cristoforo difende al
cospetto del più forte, gridandone i diritti nel nome di Dio:
“ Non s’ostini a negare una giustizia così
facile e così dovuta a de’poverelli. Pensi che Dio ha sempre gli occhi
sopra di loro, e che le loro grida, i loro gemiti sono ascoltati lassù.” (Colloquio fra Don Rodrigo e
Padre Cristoforo VI )
E saranno la “ gente di nessuno” nella sprezzante
definizione di don Rodrigo, sicuro dell’impunità quand’anche dovesse mai
esserci qualche sospetto su di lui a proposito del rapimento di Lucia:
.“ In quanto ai sospetti –
pensava- me ne rido. Vorrei un po’sapere chi sarà quel voglioso che venga quassù a vedere se c’è o non c’è una ragazza.
Vena, venga quel tanghero, che sarà ben
ricevuto. Venga il frate, venga. La vecchia? Vada a Bergamo la vecchia. La giustizia?
Poh, la giustizia!. Il podestà non è un ragazzo, né un matto. E a Milano? Chi si cura di costoro a Milano? Chi
gli darebbe retta? Chi sa che ci siano?Son come gente perduta sulla terra;
non hanno né anche un padrone: gente di nessuno” (cap. XI, )
Facciamo un ultimo esempio provando a seguire
la parola “ forza”, ricorrente numerose volte nei primi capitoli del romanzo.
Quando il termine compare per
la prima volta, nella presentazione di don Abbondio e “de’tempi in cui gli era
toccato vivere”, esso viene tematizzato come nucleo problematico della società
secentesca:
“ La forza
legale non proteggeva in alcun modo l’uomo tranquillo, inoffensivo, e che
non avesse altri mezzi da far paura altrui[…] L’impunità era organizzata, e
aveva radici che le grida non toccavano, o non potevano smuovere[…]
All’apparire delle gride dirette a comprimere i violenti, questi cercavano
nella loro forza reale i nuovi mezzi più opportuni, per continuare a
fare ciò che le gride venivano a proibire[…]
Il
nostro don Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque
accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella
società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di
molti vasi di ferro[…] Non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili
fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche
agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due
ragioni più che sufficienti per una tale scelta. […]
Se si
trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava
col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando far vedere all’altro
ch’egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma
perché non avete saputo essere voi il più forte? Ch’io mi sarei messo dalla
vostra parte” ( cap. I)
La seconda volta la parola
viene pronunciata da don Abbondio incalzato da Renzo che, dopo avere parlato con Agnese, è rientrato
in canonica per mettere alle strette il curato e al quale, con apodittica
perentorietà, quasi si trattasse di una legge di natura, dice:
“ Per
amor del cielo! Non si scherza. Non si tratta di torto o ragione; si tratta
di forza”
(cap.II)
E ancora di fronte al
Cardinale Borromeo, che gli chiede ragione
del suo rifiuto a celebrare il matrimonio, don Abbondio oppone le
ragioni inoppugnabili della forza cui non resta, a chi è debole, che
sottomettersi:
Monsignore
illustrissimo, avrò torto. Quando la vita non si deve contare, non so cosa
ridire. MA quando s’ha a che fare con certa gente, con gente che ha la forza,
e che non vuol sentir ragioni, anche a voler fare il bravo, non saprei cosa ci
si potesse guadagnare” (cap.XXV)
E’ solo nella prospettiva
della fede e della carità alla quale lo richiama il Cardinale che la “forza”
può cessare di essere la misura regolatrice dei rapporti umani, sopravanzata da
una “Giustizia” che non chiede a nessuno, sulla terra, di abbattere il male ma
di contrastarlo con la Carità e la speranza nella Buona Novella.
“ E non sapete voi che il soffrire
per la giustizia è il nostro vincere? […] Qual è la buona nuova che annunziate a’poveri? Chi pretende da voi che
vinciate la forza con la forza? Certo non vi sarà domandato, un giorno, se
abbiate saputo fare stare a dovere i potenti; che a questo non vi fu dato né
missione né modo. Ma vi sarà ben domandato se avrete adoprati i mezzi ch’erano
in vostra mano per far ciò che v’era prescritto, anche quando avessero la
temerità di proibirvelo”
Parole non molto diverse da queste saranno pronunciate da padre Cristoforo per Renzo e Lucia, finalmente ricongiunti nel Lazzaretto. Nell’accompagnarli sulla soglia di quella che sarà la loro vita insieme, padre Cristoforo consegna a Renzo, quale viatico per il tempo futuro che si apre loro davanti, il pane da lui conservato per tutta la vita in segno del perdono ricevuto dalla famiglia dell’uomo che egli aveva ucciso. Ma mentre si chiude lietamente una vicenda di patimenti, di dolore e di prove, si riprospettano, nel mondo che verrà, le insidie, i soprusi, le violenze di sempre:
“ Qui
dentro c’è il resto di quel pane… il primo che ho chiesto per carità. Lo lascio
a voi altri: serbatelo; fatelo vedere ai vostri figliuoli. Verranno in un
tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo a’superbi e a’provocatori: dite loro
che perdonino sempre, sempre! Tutto, tutto!”