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giovedì 17 ottobre 2013

Alcune riflessioni di Leopardi e MAnzoni sullo stato della lingua e della letteratura italiana



Riflessioni sulla povertà della lingua e della letteratura in Italia

LEOPARDI

10-11 novembre 1823  ( Sulla lingua e la letteratura in Italia)
            Sono gli anni  del cosiddetto “ silenzio poetico”, in cui Leopardi, sentendo in lui prosciugata l’ispirazione lirica, sta lavorando alle Operette Morali, dialoghi satirici che, con “le armi del ridicolo”, prendono di mira la presunzione antropocentrica dell’uomo moderno.

Tra le cagioni del mancar noi ( e così gli spagnoli) di lingua e letteratura moderna propria, si dee porre, e per prima di tutte, la nullità politica e militare in cui è caduta l’Italia, non meno che la Spagna dal seicento in poi […]
  Crescendo le cose,  la lingua sempre si accresce e vegeta. Ma appunto per la stessa ragione, arrestandosi e mancando la vita, si ferma e impoverisce e quasi muore la lingua, com’è avvenuto infatti dal seicento in qua agli spagnoli ed a noi, le cui lingue di ricchissime e potentissime che furono, si sono andate e si vanno di mano in mano continuamente scemando, restringendo e impoverendo[…] 
  Noi abbiam pochissima conversazione, ma questa pochissima è straniera; conversazione italiana non esiste; quindi è ben naturale che la conversazione d’Italia non sia fatta in lingua italiana, e tutto ciò che ad essa appartiene, e questo è moltissimo, e di generi assai molteplice, e coerente con molte parti della vita, costumi, letteratura ec.  Sia espresso in voci straniere, e non abbia in italiano né parole né modi che lo significhino.


MANZONI

Lettera a Claude Fauriel , Milano, 3 novembre 1821
 ( naturalmente, il testo è scritto in francese)
Manzoni è alle prese con la composizione del Fermo e Lucia


Quanto poi alle difficoltà opposte dalla lingua italiana alla trattazione di questi argomenti, ( cioè i romanzi storici) esse sono reali e grandi, ne convengo; ma penso che derivino da un fatto generale, che purtroppo vale per ogni genere di componimenti. Questo fatto è ( mi guardo intorno per assicurarmi che nessuno mi ascolti ), questo triste fatto è, a mio parere, la povertà della lingua italiana. Quando un francese cerca di rendere il meglio possibile le sue idee, vedete che abbondanza e che varietà di modi trova in questa lingua che va formandosi da tanto tempo e giorno per giorno: in tanti libri, in tante conversazioni, in tanti dibattiti di ogni genere. Così un francese ha una regola per scegliere le sue espressioni, e questa regola la trova nei suoi ricordi, nelle sue abitudini, che gli danno un senso quasi sicuro della conformità del suo stile con lo spirito generale ella sua lingua; non deve consultare il dizionario per sapere se una parola urterà o sarà accettata; si domanda se essa è francese o no, ed è pressochè sicuro della risposta. […]
  Immaginate invece un italiano che, se non è toscano, scrive in una lingua che non ha quasi mai parlato, e che ( anche se è nato nel paese privilegiato ) scrive in una lingua che è parlata da un piccolo numero di abitanti d’Italia, una lingua nella quale non vengono discussi oralmente grandi problemi, una lingua in cui le opere relative alle scienze morali sono assai rare e distanziate nel tempo […]  Manca del tutto a questo povero scrittore quel sentimento per così dire di comunione col suo lettore, quella certezza di maneggiare uno strumento ugualmente conosciuto da entrambi.
[…]
Nel rigore scorbutico e pedantesco dei nostri puristi c’è a mio parere un sentimento di fondo molto ragionevole: è il bisogno di una certa stabilità, di una lingua concordata fra coloro che scrivono q coloro che leggono; credo solo che essi abbiano torto a credere che nella crusca e negli scrittori classici ci stia tutta la lingua; e quando anche ci stesse, avrebbero ancora torto a pretendere che la si cercasse lì, che la si imparasse, che ci se ne servisse; perché è assolutamente impossibile che dai ricordi di una lettura risulti una conoscenza sicura, vasta, applicabile a ogni istante, di tutto il materiale di una lingua.



E veniamo alla Introduzione al Fermo e Lucia ( 1823)

Introduzione al Fermo e Lucia

Che cosa poi significhi scriver bene non credo che alcuno possa definirlo in poche parole. Ecco però alcune delle idee che mi sembra doversi intendere in quella formola.
A bene scrivere bisogna saper scegliere quelle parole e quelle frasi, che per convenzione generale di tutti gli scrittori, e di tutti i favellatori, hanno quel tale significato: parole e frasi che o nate nel popolo, o inventate dagli scrittori, o derivate da un’altra lingua, quando che sia, comunque sono generalmente ricevute e usate. Parole e frasi che sono passate dal discorso negli scritti senza parervi basse, dagli scritti nel discorso senza parervi affettate; e sono generalmente e indifferentemente adoperate all’uno e all’altro uso.
Parole e frasi divenute per qust’uso generale e esclusivo tanto famigliari ad ognuno, che ognuno le riconosca appena udite; dimodochè se un parlatore o uno scrittore per caso adoperi qualcheduno che non sia di quelle, o travolga alcuna di quelle ad un senso diverso dal comune, ognuno se ne avvegga e ne resti offeso; e per provare che quella parola sia barbara, o inopportuna non debba frugare un vocabolario, né ricordarsi che quella parola non è stata usata dai tali e dai tali scrittori, ma gli basti appellarsene alla memoria, all’uso, al sentimento degli altri ascoltatori, i quali fossero mille, converranno tosto del sì o del no.
[…]
  Se in Italia vi sia una lingua che abbia questa condizione, è una questione su la quale non ardisco dire il mio parere. […] Io per me ne conosco una, nella quale ardirei promettermi di parlare, negli argomenti ai quali essa arriva, tanto da stancare il più paziente uditore, e questa lingua, senza vantarmi, è la milanese. Ve n’ha un’altra in Italia, incomparabilmente più bella, più ricca di questa, e di tutte le altre, e che ha materiali per esprimere idee più generali etc. ed è, come ognun sa, la toscana.


A Tommaso Grossi, Firenze 1827

Nel 1827, anno di pubblicazione della I edizione dei Promessi Sposi, Manzoni compie il primo, e sospiratissimo, viaggio a Firenze per la “risciacquatura dei panni in Arno”.

Non passa giorno, ch’io non raccolga accidentalmente nel discorso modi di dre, de’quali io sarei andato a cercare il corrispondente toscano, e non l’avrei trovato, o l’avrei trovato nei libri disusato, ignorato, morto fradicio. Mi ricordo d’essere stato lì lì per fare un baratto onde sostituire archibugiata  a  schioppettata, ch’io non aveva mai avuto il piacere di incontrare né in libri di lingua né nei vocabolarii. Ma guai se mi fossero toccate tutte le schioppettate che ho intese nominare; né ho mai inteso in quel senso dire altro; e avendone chiesto mi fu detto che questo è il termine più comune; che archibugiata non sarebbe strano ma non viene così in su la lingua, e che fucilata è vocabolo militare.

Vogliamo ricordare a questo punto quanto aveva già scritto M.me de Stael nel 1816, in quel suo famoso articolo Sulla utilità delle traduzioni  comparso sulla "Biblioteca italiana", la rivista dei classicisti, che aveva dato il via alle polemiche tra classicisti e romantici?


I dotti e anche i poeti, in quella età  che gli studi risorsero( la Stael si riferisce all'età umanistico-rinascimentale), pensarono a scriver tutti in una medesima lingua, cioè latino, perchè non volevano che ad essere intesi lor bisognasse di venir tradotti. Il che poteva giovare alle scienze, le quali non cercano le grazie dello stile per esprimere i loro concetti. Ma da ciò accadde che che il più degli italiani ignorasse quanta dovizia di scienze abbondasse nel paese loro, perchè il maggior numero di quelli che potevano leggere non sapeva il latino. E d'altra parte, per adoperare questa lingua nelle scienze e nella filosofia bisogna creare vocaboli che ne'romani scrittori ci mancano. Laonde i dotti d'Italia venivano ad usare una lingua che era morta, e non antica. I poeti non uscivano dalle parole e dalla dizione de'classici, e l'Italia, udendo tuttavia sulle rive del Tevere e dell'Arno, e del Sebeto e dell'Adige la favella de'romani ebbe scrittori che furono stimati vicini allo stile di Virgilio e di Orazio, come il Fracastoro, il poliziano, il sannazzaro; dei quali però se non è oggidì spenta la fama, giacciono abbandonate le opere, che dai solo molto eruditi si leggono: tanto è scarsa e breve la gloria fondata sull'imitazione.
[...] E’ opera di natura che la favella, che è compagna e parte continua di nostra vita, sia anteposta a quella che da’libri s’impara, e si trova solamente ne’libri.
[…] Havvi oggidì nella letteratura italiana una classe di eruditi che vanno continuamente razzolando le antiche ceneri per trovarvi forse qualche granello d’oro; ed un’altra di scrittori senza altro capitale che molta fiducia nella lor lingua armoniosa, donde raccozzano suoni voti d’ogni pensiero, esclamazioni, declamazioni, invocazioni che stordiscono gli orecchi, e trovan sordi i cuori altrui, perché non esalarono dal cuore dello scrittore.