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giovedì 8 novembre 2012

La Ginestra di Leopardi



La Ginestra di Leopardi

Ultimo, solenne e vibrante componimento di Leopardi ( 1836), La Ginestra è stata definita la più intensa espressione del "titanismo" leopardiano  (Walter Binni), cioè di quell'atteggiamento eroico dell'uomo che, rifiutati gli inganni consolatori, non si sottrae alle dolorose verità materialiste ma da queste sa ricavare piuttosto un insegnamento di solidarietà rivolto a tutti gli uomini, accomunati dallo stesso destino.
 Prima di tutto questo, però, La Ginestra è una romanticissima poesia di contemplazione di paesaggi: paesaggi di rovine, di " deserti", di "campi cosparsi di ceneri infeconde" su cui appena aleggia il "profumo " consolatore della "gentile" ginestra ( strofa 1);  e paesaggi sconfinati, immensi  quali sono quelli dei cieli notturni con i loro " remoti nodi quasi di stelle" a cui si fissano, smarriti e sopraffatti , gli sguardi degli uomini  (strofa 4). Sono queste le immagini che il "pensiero poetante" innalza al valore di simbolo, oggettivando in esse la grandiosità della natura e la piccolezza dell'uomo. 
E guardiamo al microscopio, allora, le antitesi lessicali della prima strofa, che si apre sul potente paesaggio dominato dal  "formidabil monte/sterminator Vesevo".  Ai "campi cosparsi/ di  ceneri infeconde", all ' "impietrata lava", alla "ruina" che tutto  "intorno involve", all' " altero monte/ dall'ignea bocca", si oppone la presenza umile della "odorata ginestra", unica presenza di vita, solitaria e tenace. E' l'umile "fior gentile" che " amante" dei luoghi solitari," compagna" del  destino infelice, "abbellisce" l' aspro paesaggio vulcanico ed " esala un "profumo/ che il deserto consola". Eccoli qui i due personaggi tragici, uno di fronte all'altro, l'uno portatore di morte e rovina, l'altra  pietosa e dolce presenza consolatrice.
La seconda strofa  si apre su toni declamatori con quell'imperativo " Qui mira e qui ti specchia/ secol superbo e sciocco"  che chiama direttamente in causa il destinatario primo del componimento leopardiano, la società ottocentesca stoltamente superba nella sua fede progressista e che il poeta invita ad affacciarsi su quello scenario di arida pietrosità, epifania demistificante di ogni illusione antropocentrica. Solo progredendo sulla strada aperta innanzi dai lumi settecenteschi e rifiutando gli inganni della ragione, come già diceva il Tristano delle Operette morali “ si cresce in civiltà”.
  I toni ragionativi continuano nella terza strofa, in cui Leopardi mette a confronto la stoltezza di chi promette glorie illustri e felicità a una umanità che  “un’onda /di mar commosso”, “ un fiato/ d’aura maligna”, “ un sotterraneo crollo” possono distruggere in un momento con la grandezza, davvero eroica, di chi sa guardare in faccia il proprio arduo destino e virilmente soffrire ( “ Nobil natura è quella/ che a sollevar s’ardisce/ gli occhi mortali incontra/al comun fato e che con franca lingua/ nulla al ver detraendo/ confessa il mal che ci fu dato in sorte, e il basso stato e frale” ).

Qui si introduce la parte finalmente construens della riflessione leopardiana e il superamento delle sconsolate conclusioni di Tristano. Rivediamone un momento alcuni passaggi. E’ necessario, perché La ginestra, senza rinnegare le posizioni dell’ultima Operetta morale ne costituisce però un superamento, essendo questa volta “la pietà” a prendere il posto del “riso” con cui Tristano si prendeva gioco degli uomini, preferendo ai loro puerili inganni “tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa ma vera”. Era una solitudine sdegnosa ed eroica quella nella quale si chiudeva Tristano, che scandiva il suo credo esistenziale nella enunciazione perentoria della paratassi:
“Calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogni inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa ma vera”.
Cosa c’è in più, dunque, ne La ginestra? C’è la conclusione che l’uomo è innocente e che solo un amore fraterno, generato dalla coscienza della comune fragilità, una solidarietà amica che sappia stringere “ i mortali in social catena” contro l’unica nemica, può rendere più sopportabile la vita non accrescendo al male della natura il male che l’uomo fa all’uomo.
 Nella 4^ strofa ritorna una poesia contemplativa che sembra recuperare situazioni e toni “ idilliaci”  ( “ seggo la notte… veggo dall’alto fiammeggiar le stelle… e quando miro…al pensier mio / che sembri allora”) salvo poi declinarli in una sintassi ardua e vertiginosa come vertiginoso è quel cielo profondo, infinito in cui si inoltra e smarrisce lo sguardo leopardiano.
Straordinariamente densi di allusioni ed echi letterari questi versi, come se ci fosse bisogno di sprofondare anche negli altrettanto immensi cieli poetici per dare slancio alla propria domanda esistenziale riaccordandola con quella di tutti i secoli.
Vediamo meglio. Echi pascaliani si levano dai versie poi che gli occhi a quelle luci appunto/ ch’a lor sembrano un punto/ e sono immense, in guisa/ che un punto a petto lor son terra e mare/ veracemente; a cui l’uomo non pur, ma questo/ globo ove l’uomo è nulla,/ sconosciuto è del tutto” . Confrontiamoli con i Pensieri di Pascal:
 L’uomo contempli dunque la natura tutta intera nella sua piena e alta maestà…la terra gli apparisca come un punto in confronto all’immenso giro che quell’astro ( il sole) descrive…E se a questo punto la nostra vista si arresterà, l’immaginazione vada oltre…Che cos’è l’uomo nell’infinito? )
Non è tutto. L’immagine della “terra come punto” è consueta nel topos della contemplazione della terra dall’alto, presente in Cicerone, Seneca, Dante come, dopo Leopardi, in Pascoli.
Confronta bene:
Cicerone, Somnium Scipionis “ Erant autem eae stellae quae numquam ex hoc loco vidimus, et eae magnitudines omnium quas esse numquam suspicati sumus… Iam vero ipsa terra mihi parva visa est, ut me imperii nostri, quo quasi punctum eius attingimus, paeniteret
Seneca, Naturales Quaestiones, Prefazione, Punctum est istud in quo navigatis, in quo bellatis, in quo regna disponitis… sursum ingentia spatia sunt”
Dante, Paradiso, XXII, “Rimira in giù, e vedi quanto mondo/ sotto li piewdi già esser ti fei/…/ Col viso ritornai per tutte quante/le sette spere, e vidi questo globo/ tal ch’io sorrisi del suo vil sembiante/…/ L’aiuola che ci fa tanto feroci/… /tutta m’apparve da’colli a le foci”.  (da notare che la parola “aiuola” è calco dal latino “areola” = piccola area, spazio esiguo e limitato più che “giardino”
Perfino gli accenti dei Salmi sembrano ritrovarsi, seppure naturalmente in chiave antiprovvidenziale: anche qui, confronta i vv. 174-185
“e quando miro/ quegli ancor più senz’alcun fin remoti/ nodi quasi di stelle/ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo/ e non la terra sol, ma tutte in uno, /del numero infinito e de la mole/ con l’aureo sole insiem, le nostre stelle/ o sono ignote, o così paion come/ essi alla terra, un punto/di luce nebulosa; al pensier mio/ che sembri allora o prole dell’uomo?
Con  Salmo 8 Se guardo il Cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu vi hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi?”
Come partendo dalle prime e più percepibili stelle lo sguardo di Leopardi si spinge sempre più a fondo nell’immensità del cielo e del pulviscolo sidereo, altrettanto sembra che dentro una reminiscenza poetica egli ne rintracci un’altra e un’altra e un’altra ancora: gli intrecci infiniti delle parole dei poeti




giovedì 1 novembre 2012

Sulla lingua per il romanzo



Lettera a Claude Fauriel ( naturalmente, il testo è scritto in francese)
Milano, 3 novembre 1821


Per indicarvi in breve la mia idea fondamentale circa  romanzi storici, e mettervi così sulla via  per rettificarla, vi dirò che concepisco tali romanzi come la rappresentazione di una data condizione della società fatta attraverso vicende e caratteri così simili alla realtà che essa possa apparire una storia vera appena appena scoperta. Quando sono ad essa mescolati avvenimenti e personaggi storici, credo che si debba rappresentarli nel modo più rigorosamente storico: perciò, ad esempio, in Ivanhoe, Riccardo cuor di leone mi sembra figura difettosa. Quanto poi alle difficoltà opposte dalla lingua italiana alla trattazione di questi argomenti, esse sono reali e grandi, ne convengo; ma penso che derivino da un fatto generale, che purtroppo vale per ogni genere di componimenti. Questo fatto è ( mi guardo intorno per assicurarmi che nessuno mi ascolti ), questo triste fatto è, a mio parere, la povertà della lingua italiana. Quando un francese cerca di rendere il meglio possibile le sue idee, vedete che abbondanza e che varietà di modi trova in questa lingua che va formandosi da tanto tempo e giorno per giorno: in tanti libri, in tante conversazioni, in tanti dibattiti di ogni genere. Così un francese ha una regola per scegliere le sue espressioni, e questa regola la trova nei suoi ricordi, nelle sue abitudini, che gli danno un senso quasi sicuro della conformità del suo stile con lo spirito generale ella sua lingua; non deve consultare il dizionario per sapere se una parola urterà o sarà accettata; si domanda se essa è francese o no, ed è pressochè sicuro della risposta. […]
  Immaginate invece un italiano che, se non è toscano, scrive in una lingua che non ha quasi mai parlato, e che ( anche se è nato nel paese privilegiato ) scrive in una lingua che è parlata da un piccolo numero di abitanti d’Italia, una lingua nella quale non vengono discussi oralmente grandi problemi, una lingua in cui le opere relative alle scienze morali sono assai rare e distanziate nel tempo […]  Manca del tutto a questo povero scrittore quel sentimento per così dire di comunione col suo lettore, quella certezza di maneggiare uno strumento ugualmente conosciuto da entrambi.
 Supponiamo che egli richieda se la frase che ha appeno scritto è italiana: come può dare una risposta sicura a una domanda che non è precisa? Perché, che cosa significa italiano in questo senso? Secondo alcuni quel che è consegnato nella Crusca, secondo altri quello che è capito in tutta Italia, o dalle classi colte; i più non applicano a questa parola alcuna idea precisa. […]
Nel rigore scorbutico e pedantesco dei nostri puristi c’è a mio parere un sentimento di fondo molto ragionevole: è il bisogno di una certa stabilità, di una lingua concordata fra coloro che scrivono q coloro che leggono; credo solo che essi abbiano torto a credere che nella crusca e negli scrittori classici ci stia tutta la lingua; e quando anche ci stesse, avrebbero ancora torto a pretendere che la si cercasse lì, che la si imparasse, che ci se ne servisse; perché è assolutamente impossibile che dai ricordi di una lettura risulti una conoscenza sicura, vasta, applicabile a ogni istante, di tutto il materiale di una lingua. Ditemi ora come deve comportarsi un italiano che, non sapendo far altro, vuole scrivere. […
Penso con voi che scrivere bene un romanzo in italiano sia una delle cose più difficili, ma questa difficoltà la vedo, benché in grado minore, anche in altri generi letterari; e con la coscienza, non completa ma assai sicura, che ho dell’inadeguatezza dell’artefice, ho anche la coscienza quasi altrettanto sicura dei limiti che provengono dalla materia.

lunedì 29 ottobre 2012

Sui Promessi Sposi



Qualche osservazione sul I capitolo dei Promessi Sposi e qualcos’altro




L’inizio dell’azione è collocata il 7 novembre del 1628.
Dopo avere fissato Don Abbondio, nella sua abituale passeggiata, “ per una di queste stradette”, e avere posto nel suo campo visivo i due bravi che lo stanno aspettando,  il racconto viene già interrotto da una prima digressione nella quale si dà conto delle Gride pubblicate contro i Bravi.
La prima grida menzionata è del 1583; ne vengono poi subito dopo ricordate altre (1593, 1598, 1600, 1612, 1618).
Sono tutte le disposizioni di legge che, come si vede dalla successione delle date, restano inevase perché il potere legale non vuole operare realmente contro il potere reale dei vari signori e signorotti. Quelle delle gride sono dunque parole vuote, lettera morta.
Allorché la narrazione riprende, con il primo scambio di battute fra il curato e i due bravi,  che sono anche le prime pronunciate da personaggi del romanzo  : ( “ Signor curato” disse un di que’due, piantandogli gli occhi in faccia. “ Cosa comanda?” rispose subito don Abbondio), ci viene subito mostrato quali sono i meccanismi che regolano i rapporti sociali e qual è il rapporto reale fra il diritto e la forza.
  Nella succitata digressione si esercita l’ironia del narratore che, nello stesso momento in cui riferisce le parole della legge vi introduce la sua intenzione comunicativa “ altra” che deforma grottescamente la prima, svelandone la vuota ridondanza.
All’udire parole di un tanto signore, così gagliarde e sicure, e accompagnate da tali ordini, viene una gran voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre. Ma la testimonianza di un signore non meno autorevole ci obbliga a credere tutto il contrario.”
Ed ecco nuova grida dell’ “Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Pietro Enriques de Acevedo, Conte di Fuentes, Capitano e Governatore dello Stato di Milano” , a proposito della quale così commenta il narratore:
Convien credere però che non ci si mettesse con tutta quella buona voglia che sapeva impiegare nell’ordir cabale, e nel suscitar nemici al suo gran nemico Enrico IV; giacchè per questa parte, la storia attesta come riuscisse ad armare contro quel re il duca di Savoia, a cui fece perder più d’una città; come riuscisse a far congiurare il duca di Biron, a cui fece perdere la testa; ma per ciò che riguarda quel seme tanto pernicioso de’bravi, certo è che esso continuava a germogliare il 22 settembre dell’anno 1612”

Attraverso il procedimento dell’ironia viene creata una distanza critica tra l’oggetto rappresentato( il 600)  e lo sguardo su di esso( il narratore ottocentesco), e ognuno è presentato nella sua autonomia di realtà. Il romanzo orchestra in questo modo una pluralità di voci che sono altrettanti “punti di vista sul mondo” .
Abbiamo visto sopra una partitura doppia divisa tra la parola- documento ( le grida) e la parola- commento ( il narratore), che trasforma in problema la certezza dei fatti.
 
Ma la dialogicità opera anche a distanza, nelle parole dei personaggi adattate a referenti diversi,  in una relazione tra le parole e le cose  variabile a seconda delle esperienze e dei vissuti individuali. Così, per esempio, quelle che l’Anonimo definiva in base all’appartenenza sociale “genti meccaniche e di picciol affare” , Renzo, Lucia, Agnese, sono i “ poveri cari tribolati” che padre Cristoforo difende al cospetto del più forte, gridandone i diritti nel nome di Dio:
 “ Non s’ostini a negare una giustizia così facile e così dovuta a de’poverelli. Pensi che Dio ha sempre gli occhi sopra di loro, e che le loro grida, i loro gemiti sono ascoltati lassù.” (Colloquio fra Don Rodrigo e Padre Cristoforo VI )





E saranno la “ gente di nessuno” nella sprezzante definizione di don Rodrigo, sicuro dell’impunità quand’anche dovesse mai esserci qualche sospetto su di lui a proposito del rapimento di Lucia:

.“ In quanto ai sospetti – pensava- me ne rido. Vorrei un po’sapere chi sarà quel voglioso che venga quassù a vedere se c’è o non c’è una ragazza. Vena, venga quel tanghero, che sarà  ben ricevuto. Venga il frate, venga. La vecchia? Vada a Bergamo la vecchia. La giustizia? Poh, la giustizia!. Il podestà non è un ragazzo, né un matto. E a  Milano? Chi si cura di costoro a Milano? Chi gli darebbe retta? Chi sa che ci siano?Son come gente perduta sulla terra; non hanno né anche un padrone: gente di nessuno(cap.    XI, )


  Facciamo un ultimo esempio provando a seguire la parola “ forza”, ricorrente numerose volte nei primi capitoli del romanzo.
Quando il termine compare per la prima volta, nella presentazione di don Abbondio e “de’tempi in cui gli era toccato vivere”, esso viene tematizzato come nucleo problematico della società secentesca:

“ La forza legale non proteggeva in alcun modo l’uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi da far paura altrui[…] L’impunità era organizzata, e aveva radici che le grida non toccavano, o non potevano smuovere[…] All’apparire delle gride dirette a comprimere i violenti, questi cercavano nella loro forza reale i nuovi mezzi più opportuni, per continuare a fare ciò che le gride venivano a proibire[…]
Il nostro don Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro[…] Non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. […]
Se si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando far vedere all’altro ch’egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché non avete saputo essere voi il più forte? Ch’io mi sarei messo dalla vostra parte” ( cap. I)

La seconda volta la parola viene pronunciata da don Abbondio incalzato da Renzo  che, dopo avere parlato con Agnese, è rientrato in canonica per mettere alle strette il curato e al quale, con apodittica perentorietà, quasi si trattasse di una legge di natura, dice:

“ Per amor del cielo! Non si scherza. Non si tratta di torto o ragione; si tratta di forza” 
(cap.II)

E ancora di fronte al Cardinale Borromeo, che gli chiede ragione  del suo rifiuto a celebrare il matrimonio, don Abbondio oppone le ragioni inoppugnabili della forza cui non resta, a chi è debole, che sottomettersi:

Monsignore illustrissimo, avrò torto. Quando la vita non si deve contare, non so cosa ridire. MA quando s’ha a che fare con certa gente, con gente che ha la forza, e che non vuol sentir ragioni, anche a voler fare il bravo, non saprei cosa ci si potesse guadagnare” (cap.XXV)

E’ solo nella prospettiva della fede e della carità alla quale lo richiama il Cardinale che la “forza” può cessare di essere la misura regolatrice dei rapporti umani, sopravanzata da una “Giustizia” che non chiede a nessuno, sulla terra, di abbattere il male ma di contrastarlo con la Carità e la speranza nella Buona Novella.

E non sapete voi che il soffrire per la giustizia è il nostro vincere? […] Qual è la buona nuova che annunziate a’poveri? Chi pretende da voi che vinciate la forza con la forza? Certo non vi sarà domandato, un giorno, se abbiate saputo fare stare a dovere i potenti; che a questo non vi fu dato né missione né modo. Ma vi sarà ben domandato se avrete adoprati i mezzi ch’erano in vostra mano per far ciò che v’era prescritto, anche quando avessero la temerità di proibirvelo”

 

Parole non molto diverse da queste saranno pronunciate da padre Cristoforo per Renzo e Lucia, finalmente ricongiunti nel Lazzaretto. Nell’accompagnarli sulla soglia di quella che sarà la loro vita insieme, padre Cristoforo consegna a Renzo, quale viatico per il tempo futuro che si apre loro davanti,  il pane da lui conservato per tutta la vita in segno del perdono ricevuto dalla famiglia dell’uomo che egli aveva ucciso. Ma mentre si chiude lietamente  una vicenda di patimenti, di dolore e di prove, si riprospettano, nel mondo che verrà, le insidie, i soprusi, le violenze di sempre:


“ Qui dentro c’è il resto di quel pane… il primo che ho chiesto per carità. Lo lascio a voi altri: serbatelo; fatelo vedere ai vostri figliuoli. Verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo a’superbi e a’provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! Tutto, tutto!”





giovedì 18 ottobre 2012

Notarelle su due Operette Morali



Dialogo di Ercole e Atlante: L'argomento è quello  della scomparsa del genere umano. La critica feroce all'antropocentrismo passa attraverso il linguaggio dell'abbassamento comico e della degradazione : Atlante tiene la terra sulla schiena come una  "pallottola" e si meraviglia che essa si sia fatta così " leggera"; Ercole la paragona a una " pagnotta" e, per la scomparsa di ogni rumore al suo interno, " a un oriuolo ( = orologio)che abbia rotto la molla".  Credendo che gli uomini siano profondamente addormentati, Ercole suggerisce di scuotere un po' " questa sferuzza" giocando con essa a palla. La presa è peraltro difficile perchè la terra risulta troppo "leggera" ( e d'altronde,  "questa  è sua  pecca vecchia, di andare a caccia del vento")  e al tempo stesso non rimbalza " più che un popone". Tutto è inutile:non si manifesta più alcun segno di vita."
Armi del comico, qui come nel simile Dialogo di un folletto e di uno gnomo, sono il cozzare della materia tragico-apocalittica con la leggerezza della rappresentazione e il riso demistificatore che , attraverso la lingua abbassa a un piano familiare, ciò che generalmente si ritiene dignitoso e serio.

Dialogo di Federico Ruysc e delle sue mummie
Il tema del piacere negato alla esistenza umana e del dolore come condizione universale viene qui svolto nella prospettiva straniante del coro dei morti che, al compiersi del grande anno cosmico, si destano per un quarto d’ora dal loro sonno per parlare con i vivi.
L’idea centrale, espressa dalla nenia con cui inizia l’operetta, è che la morte sia di gran lunga preferibile alla vita perché in essa, spento il sentire, non vi è più patimento. Guardata dai ciechi occhi dei morti, la vita si rivela “ cosa arcana e stupenda” – nel senso etimologico di “che desta stupore”-, esattamente come appare la morte agli occhi dei vivi. Ma la parola di verità definitiva spetta questa volta ai morti che, avendo  già sperimentato entrambe le condizioni, non vorrebbero tornare a vivere, perché, sebbene nemmeno nella morte vi sia felicità ( “ però ch’esser beato/ nega ai mortali e nega a’morti il fato”) vi è però almeno quiete ( “lieta no ma sicura/ dell’antico dolor”).
E come appaiono misere e banali le curiosità e le affermazioni di Federico di fronte alla solenne esposizione dei morti, che in questa notte improvvisamente metafisica fanno affacciare i vivi sulla soglia del mistero più temuto.
Il rovesciamento dei valori in cui si cambiano di segno il positivo e il negativo si trasferisce anche nelle forme espressive, con il passaggio repentino dal sublime lirismo del coro che fa da preambolo all’operetta al registro quasi comico-burlesco dello studioso, destato dal suo sonno notturno da chi si è svegliato dal sonno eterno.

martedì 9 ottobre 2012

Le varianti de L'Infinito



Le varianti de L’infinito

Sempre caro mi fu quest’ermo colle
e questa siepe, che da tanta parte
del celeste confine
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
   un infinito
        interminato
      Ma sedendo e mirando  interminati 
spazio di là da quella
spazi di là da quella e sovrumani

silenzi, e profondissima quiete

io nel pensier mi fingo: ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
                    fra
odo stormir tra   queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
                             .E mi  sovvien l’eterno,
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,

e le morte stagioni, e la presente
            e ‘l               fra
      e viva, e il suon di lei. Così  tra  questa

immensitade il mio pensier s’annega
immensità,
infinità      
immensità  s’annega il pensier mio

e ‘l naufragar m’è dolce in questo mare
e il naufragar m’è dolce in questo mare.



Entriamo nel laboratorio poetico di Leopardi esaminando le correzioni autografe sul testo de L’infinito. E’ interessante osservare come la parola “infinito”, dopo essersi affacciata diverse volte in posizioni diverse del testo, sia stata regolarmente sostituita da altre scelte. La prima volta “infinito”  si presenta nella forma aggettivale in enjambement con “spazio” ed è subito sostituita dalla variante  interminato”, che rimane ma passando al plurale nel nuovo sintagma “ interminati spazi” che accresce l’indefinitezza dell’immagine. Compare invece senza correzioni e ripensamenti nel verso “ quello/infinito silenzio”: in enjambement con il deittico di lontananza, simmetrico al “di là da quella” – cioè la siepe -. Agli elementi percepibili del paesaggio reale si vanno sostituendo altri paesaggi,  più remoti rispetto al soggetto che contempla e ode. Paesaggi reali o mentali? 
   La terza volta la parola si presenta in forma sostantivale alla fine della poesia –  così tra questa/ infinità s’ annega il pensier mio” - , e anche qui viene rifiutata a favore di “immensità” , variante a sua volta del più arcaizzante “ immensitade”. Il fatto è che l’infinito non può essere un’esperienza dei sensi, legata al mondo reale, – “ questa infinità” : da notare il deittico- ma un’esperienza dell’immaginazione, sollecitata, messa in moto dai sensi ( io posso percepire una cosa come immensa ma non come infinita, che è un’idea astratta).
 Mettiamo quindi a confronto le due parole “ infinità” e “ l’infinito” che dà il titolo alla poesia: credo che la scelta sia dettata dal fatto che “ infinità” ha una densità di “cosa” che svanisce – rimanendone però l’idea – nella sostantivazione dell’aggettivo “infinito” dato dall’articolo ( l’infinito). DA concetto, l’infinito si fa esperienza immaginativa, frutto di un pensiero potentemente creatore: “ io nel pensier mi fingo” non significa, infatti, “ invento” ma, con piena adesione all’etimo latino, propriamente “plasmo, costruisco”.Dunque,  non c’è un soggetto che passivamente riceve le immagini della natura nell’impressione sensoriale , ma un soggetto attivo, che entra in relazione con la natura e la ri-crea a partire dal proprio sentire.

mercoledì 19 settembre 2012

PER I RAGAZZI DI 2^
            

 Chiare fresche dolci acque
 ove le belle membra
 pose colei che sola a me par donna


Come potevo resistere?
Guardate le " chiare, fresche, dolci acque" della canzone di Petrarca. Si tratta della Sorga, un torrente dalle acque limpide e verdissime che scorre a Valchiusa, il " locus amoenus" tanto amato da Petrarca e a cui si riferiscono molte sue poesie. Non è meraviglioso?  Nella famosa canzone Petrarca ricorda un giorno in cui vide Laura, giovane e  bellissima immergersi nelle acque di quel torrente.  Bisogna andare nei luoghi che hanno ispirato certe poesie per goderne pienamente l'incanto





 


 Per i ragazzi di terza

Parliamo di Romanticismo


In tutte le teorie mimetiche dell’Arte- quelle cioè secondo cui l’arte riflette la natura-, il primato nel rapporto fra soggetto e oggetto è dato all’oggetto: l’artista guarda fuori di sé più che dentro di sé.
L’Arte può rappresentare il reale come è o, più spesso,selezionare e abbellire cercando così la natura ideale dietro quella reale. L’Arte dunque per lo più abbellisce e migliora.
Tenendo lo specchio dell’Arte di fronte alla Natura, essa può riflettersi non tanto in ciò che la grossolana realtà manifesta ma nelle sue forme più perfette che stanno dietro o dentro il reale.

Nel 1800, nella Prefazione  alle Lyrical BAllads,  Wordsworth inverte radicalmente questo atteggiamento. Affermando che “ la poesia è lo spontaneo traboccare di forti sentimenti”, egli formula una teoria secondo cui è ora l’artista stesso l’elemento primo, generatore del prodotto artistico. In termini generali, l’atteggiamento fondamentale di questa “ teoria espressiva” si può riassumere nel seguente modo: la fonte e la materia prima di una composizione poetica sono dunque gli attributi e i moti dell’animo del poeta stesso. La materia di una poesia viene dal di dentro e consiste dichiaratamente non di oggetti e nemmeno di azioni, ma del flusso sentimentale del poeta stesso. Gli oggetti- scrive Wordsworth- derivano il loro valore non da ciò che realmente essi sono in sé, ma da quanto viene ad essi attribuito dal soggetto. Non si tratta più dunque di rappresentare gli oggetti cogliendone il valore universale ma di esprimere l’emozione . L’attenzione si sposta dunque dall’oggetto sul soggetto poetante.
Si compie un vero mutamento epistemologico per quanto riguarda il rapporto fra la mente e i sensi. LA mente non è più considerata una “ tabula rasa” su cui si imprimono le immagini prodotte dai sensi; essa partecipa attivamente al processo percettivo e nel fare ciò modifica e trasforma la realtà.
Già un poeta del tardo Settecento, a cui si rifà espressamente Wordsworth, aveva scritto
 I nostri sensi, come la nostra ragione, sono divini
E creano in parte il mirabile mondo che vedono.
non fosse per il possente incanto di questi magici organi
la terra sarebbe ancora un caos opaco e selvaggio.
Gli oggetti non sono che occasioni; nostro è il vanto…
E’ l’uomo a creare l’immagine unica, è lui che l’ammira.

La Natura infinitamente creatrice, suscitatrice di bellezza non solo estetica ma anche morale,  è la principale fonte di ispirazione di Wordsworth.

Leggiamo questi versi tratti da Il preludio:
Dalla natura viene l’emozione, e i momenti
Di calma sono ugualmente doni della natura:
questa è la sua gloria; questi due attributi
sono le fonti gemelle che fanno la sua forza:
quest’influenza duplice è il sole e la pioggia
di tutte le sue offerte, egualmente benigne
nell’origine come nel fine. Perciò avviene
che il genio, vivo nell’alternanza
di pace e di eccitamento, trova in lei
la migliore e più pura amica: da lei riceve
l’energia con la quale cerca il vero,
si desta, aspira, prende, lotta vuole;
da lei felice quiete della mente
per cui l’accoglie quando non l’attende.

Tali benefici possono ottenere le anime
Più umili, ognuna a suo modo; sta a me
Dire di ciò che io stesso ho capito e sentito:
compito ameno, chè le parole scorrono, ispirate
da gratitudine e fiducia nel vero.
[…]
La natura soprattutto mi ridiede
-ristabilì nell’anima
Più profondamente – quel più saggio spirito
Che, vedendo poco di degno o sublime
In quel che celebriamo con i nomi altisonanti
Di potere e azione, mi apprese dai primi anni
A guardare con sentimenti di amore fraterno
Le cose umili che occupano
Un posto silenzioso in questo mondo bello.


L’estetica tardo-settecentesca del Sublime poneva nella potenza dell’emozione e della passione una delle qualità del sublime. Un’altra idea molto diffusa nello stesso periodo era quella che portava a ricercare l’essenza della vera poesia nella immediatezza e spontaneità del sentire dei popoli  primitivi. Per questa via si venne a definire quell’idea di “genio” inteso come ciò che è spontaneo e originario, espressione autentica della vita di un individuo o di un popolo.
Una idea comune nella filosofia ed estetica romantica, soprattutto tedesca, fu che linguaggio e poesia si originassero insieme sotto la pressione del sentimento.
L’arte a cui si volle assimilare la poesia fu la musica ( ut musica poesis), essendo la musica la meno mimetica delle arti ( cfr. nell’estetica classicista del ‘500 e ‘600 l’ideale dell’ut pictura poesis). Ecco allora nella poesia romantica la ricerca di accordi sonori, di musicalità, l’evocatività delle immagini che si fanno simboli , le nuove parole di ciò che è razionalmente inesprimibile.

martedì 5 giugno 2012

Ed eccoci a Montale

 

MONTALE

1925: Ossi di Seppia
1939: Occasioni
1956: La Bufera e altro, che raccoglie però liriche composte negli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra, tra il 1940 e il 1954. E’ un’opera che attesta il passaggio tra due diverse esperienze storiche: quella della guerra e del suo orrore, da cui pure potevano scaturire bagliori di speranza di un mondo diverso, e quella del dopoguerra, con l’angoscia manifesta, invece, di chi vede la fine di un’intera civiltà e nessuna possibilità di riscatto, di conciliazione con il tempo e con la natura

La poesia di Montale è una poesia sciolta da motivazioni autobiografiche ( cfr. invece Vita di un uomo), l’arte non appare più la via per raggiungere valori assoluti, sensi profondi e segreti, illuminazioni metafisiche, ma uno strumento di contatto e di enunciazione della realtà presente, della vita nel suo rivelarsi come assoluta negatività → “ Non chiederci la parola” .
Partiamo dal titolo della prima raccolta Ossi di seppia: esso fa riferimento a quanto, del mare e della sua vita, resta abbandonato sulla spiaggia, dunque relitti di vita /non-vita, frammenti di una totalità che rinviano a una ulteriorità che rimane però impenetrabile e opaca all’investigazione. Questa è la prima idea che “poeticamente” Montale ci offre della realtà, nulla che un discorso compiuto, animato e costruito a partire dall’io possa raccogliere e organizzare in strutture di senso.
Una poesia degli oggetti, affollata, densa di oggetti che il poeta si affanna invano, con accanimento nomenclatorio,  a interrogare nella speranza di cogliere, attraverso essi, un “guizzo”, un “varco”, l’istante di grazia che consenta di penetrare in mezzo a qualche verità, di carpire il segreto. Nel tentativo del soggetto di entrare in contatto con le cose si distrugge però l’inganno che tiene unite le forme delle cose, proiettate come ombre e apparenze su uno schermo. Il “varco” però è destinato a richiudersi, l’opacità del reale, impermeabile alla ragione che tenta di forzarla, si serra escludendo l’uomo e abbandonandolo a una solitudine amara resa ancora più grande nella vanità dello sforzo.

Avremo allora Cigola la carrucola del pozzo:
Cigola la carrucola del pozzo,
l’acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un’immagine ride.
[…]
                       Ah che già stride
La ruota, ti ridona all’atro fondo[P1] ,
visione, una distanza ci divide


E avremo Meriggiare pallido e assorto:

Meriggiare pallido e assorto
Presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i  pruni e gli sterpi[P2] 
schiocchi di merli, frusci di serpi
[…]
Osservare tra frondi il palpitare
Lontano di scaglie di mare
[…]
E andando nel sole che abbaglia
Sentire con triste meraviglia
Com’è tutta la vita e il suo travaglio
In questo seguitare una muraglia
Che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia

 [P1]Immagine allusiva al Tartaro, agli Inferi dove, risalita per un attimo alla luce, si perde nuovamente e per sempre Euridice

 [P2]Reminiscenza dantesca della foresta dei suicidi?


La “muraglia” è uno dei simboli ricorrenti negli Ossi, associata spesso all’ora topica del meriggio, l’ora accecante in cui le cose sembrano baluginare nella luce accecante e che è uno dei tempi rivelatori nella poesia montaliana:

Non rifugiarti nell’ombra di quel folto di verzura
Come il falchetto che strapiomba
Fulmineo nella caldura

E’ ora di lasciare il canneto
Stento che pare s’addorma
E di guardare le forme
della vita che si sgretola
                                                                       **

Ah, l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri e a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

                                                                                              **

Nessuna consolazione di poesia, nella poesia di Montale.

Uno dei simboli degli istanti di grazia è il profumo dei limoni, caricato di valenze essenziali più che sensoriali:
[…]
Qui delle divertite passioni
Per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l’odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose
S’abbandonano e sembrano vicine
A tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene



                                                                                              *********
Godi, se il vento ch’entra nel pomario
Vi rimena l’ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquiario
[…]
Un rovello è di qua dall’erto muro.
Se procedi t’imbatti
Tu forse
Nel fantasma che ti salva:
si compongono qui le storie,gli atti
scancellati pel gioco del futuro 
( da In limine, preposta alla raccolta “Tutte le poesie”)

 La salvezza della poesia montaliana è sempre fuori da questo mondo, presente e distrutto, nel sospetto d’un altro mondo autentico e “oltre”, o magari “ anteriore “ e passato
Negli Ossi già si coglie un tentativo di resistenza al sentimento di assoluta negatività: ed è allora una poesia degli istanti di grazia, seppure subito riassorbita nella constatazione di un fallimento, ei “fantasmi salvatori”. Uno di questi è senza dubbio l’odore dei limoni nella lirica che da esso s’intitola ;.

Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
Fossi dove in pozzanghere
Mezzo seccate agguantano i ragazzi
Qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Meglio se le gazzarre degli uccelli
Si spengono inghiottite dall’azzurro:
più chiaro si ascolta il sussurro
dei rami amici nell’aria che quasi non si muove
[…]
Qui delle divertite passioni
Per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l’odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose
S’abbandonano e sembrano vicine
A tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
[…]

MA l’illusione manca e ci riporta il tempo
Nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra
Soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
[…]
Quando un giorno da un malchiuso portone
Tra gli alberi di una corte
Ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.

Ma è lo stato d’animo “impoetico” quello da cui deriva la maggiore poesia degli Ossi: stato di immobilità difensiva e indifferenza come forma di resistenza al non comporsi del mondo in strutture coerenti di senso, “reificazione” della condizione negativa del vivere in elenchi di oggetti:

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

 Bene non seppi, fuori del prodigio
Che schiude la divina Indifferenza
:era la statua nella sonnolenza
Del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.



Ma è dopo gli Ossi  che comincia veramente l’arte di Montale: ogni sua lirica consisterà, da allora, nella definizione d’un fantasma che abbia la possibilità di liberare il mondo nascosto. 


Montale, in riferimento ai versi “ E andando nel sole che abbaglia/sentire con triste meraviglia...”
( Forse un mattino, composta nel 1916, a vent’anni) spiegava:
“ Mi pareva di vivere sotto una campana di vetro, eppure sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile appena mi separava da quel quid definitivo. L’espressione assoluta sarebbe stata la rottura di quel velo: un’esplosione, la fine dell’inganno del mondo come rappresentazione. Ma questo restava un limite irrangiungibile. All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una controeloquenza”.
  Riguardo alle Occasioni,  scritte a Firenze dopo il 1927, a chi trovava in esse una dipendenza dalla teoria del correlativo oggettivo di Eliot, Montale precisava che, essendo allora piuttosto scarsa la conoscenza di quel poeta, si trattava semmai di consonanze, vero essendo che già da tempo egli si muoveva su una strada che tendeva a far diminuire le effusioni di carattere romantico a favore di un’espressione oggettiva.


A.Jacomuzzi, La poesia di Montale

Nella negazione di tutte le fedi e le certezze tradizionali resiste, anche nelle voci più innovative della poesia dell’inizio del 900, un valore persistente attribuito alla poesia e alla parola. La voce davvero discorde è solo quella di Montale.
“La differenza fondamentale fra Montale e i suoi coetanei sta in ciò: che questi sono comunque in pace con la realtà mentre Montale non ha certezza del reale. Perciò quei poeti non derogano alla dominante eminentemente letteraria della tradizione italiana: il loro primum è formale[…] lo strumento conoscitivo bell’e assicurato, da dinamitare ove occorra per poi ricomporlo, è la grammatica “( Contini).
Consideriamo l’atteggiamento di Montale nei confronti di alcuni istituti stilistici caratteristici della poesia novecentesca, quale è per esempio l’analogia. Montale risulta distante dalla riflessione ungarettiana sull’analogia: Ungaretti diceva “ La poesia moderna si propone di mettere in contatto ciò che è più distante.  Maggiore è la distanza, superiore è la poesia.”
Ma  per Montale la parola non si pone come valore autonomo, non pretende più di coincidere con la rivelazione metafisica, quanto ne è semmai lo strumento che la tenta e ricerca. La frequenza dell’interrogazione diretta nella poesia montaliana successiva agli Ossi non è una costante retorica, ma il segno linguistico di questa consapevole disposizione problematica, la traccia, nel cuore del discorso poetico, di una situazione di crisi che non vuole essere elusa né esorcizzata nella illuminazione inedita dell’immagine.
L’impiego del procedimento analogico è dunque raro in Montale, e molto cauto. Quando compare, l’analogia montaliana si colloca in posizione fortemente subordinata alla struttura significativa del componimento, presentandosi ora in forma parentetica, ora come dichiarata eleganza, ma non appare mai nella forma tipica della poesia simbolista ed ermetica, come il “contatto” da cui scocca la scintilla della poesia, come solitaria suggestione verbale. Tale carattere del procedimento analogico appare sempre più chiaro e deciso col progredire dell’opera montaliana ed ha la sua verifica più ampia nella Bufera, dove anzi all’analogia, sempre più ai margini del discorso, sottentra spesso una tecnica della sovrapposizione e dell’identificazione che riprene quasi la struttura dell’allegoria.

E’ proprio alla analogia come via privilegiata di evocazione  e suggestione musicale e visiva che si rifiuta la poesia di Montale, che si muove invece su quell’altra via della definizione oggettiva ed emblematica. Per questa via la lezione di Pascoli ha agito su Montale. Montale tuttavia fuoriesce completamente anche da quanto era rimasto di soggettivismo tardo romantico nella poetica del fanciullino: Pascoli trasferisce infatti alle cose la suggestione lirica che altri cercherà all’interno della parola poetica.  Il linguaggio pascoliano viene esperito nella sua validità, nei suoi limiti e, infine, superato, come chiaramente attesta il passaggio dagli Ossi  alle Occasioni.





Da Occasioni

Lo sai: debbo riperderti e non posso.
Come un tiro aggiustato mi sommuove
ogni opera, ogni grido e anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l'oscura primavera
di Sottoripa.

Paese di ferrame e alberature
a selva nella polvere del vespro.
Un ronzio lungo viene dall'aperto,
strazia com'unghia ai vetri. Cerco il segno
smarrito, il pegno solo ch'ebbi in grazia
da te.
    E l'inferno è certo.
                                                
                                                  *******




 La speranza di pure rivederti
m'abbandonava;
e mi chiesi se questo che mi chiude
ogni senso di te, schermo d'immagini,
ha i segni della morte o dal passato
è in esso, ma distorto e fatto labile,
un tuo barbaglio:


( a Modena, tra i portici,
un servo gallonato trascinava
due sciacalli al guinzaglio)

                                               *******


Ti libero la fronte dai ghiaccioli
che raccogliesti traversando l'alte
nebulose; hai le penne lacerate
dai cicloni, ti desti a soprassalti.


Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo
l'ombra nera, s'ostina in cielo un sole
freddoloso; e l'alte ombre che scantonano
nel vicolo non sanno che sei qui.



Pubblicate nel 1939, le Occasioni abbandonano i paesaggi liguri, il lessico scabro e aspro, l'affollamento degli oggetti-simbolo per ritrovare un respiro diversamente narrativo ancorchè oscuro, ellittico, a tratti impenetrabile.
Potremmo intanto dire che le Occasioni sono anzitutto poesie d'amore, o comunque colme di presenze femminili . Ad esse, sempre,  si rivolge il poeta intessendo un dialogo straziante e struggente perchè impossibile.
La donna a cui Montale destina il suo sommesso "tu" è infatti o lontana o inafferrabile o perduta. E' tuttavia solo questa inafferrabile presenza femminile l'unica speranza di salvezza in un mondo disertato dalla ragione e dal Senso, percorso da trasalimenti di violenza e di buio. C' è tanto Dante, in queste poesie delle Occasioni, il ricordo della donna-angelo che però, in questo caso, presenza balenante di possibilità salvifiche che non si sono realizzate o non si ridaranno, certifica invece il negativo storico e il vuoto metafisico.