La Ginestra di Leopardi
Ultimo, solenne e vibrante componimento di Leopardi ( 1836), La Ginestra è stata
definita la più intensa espressione del "titanismo" leopardiano (Walter Binni), cioè di quell'atteggiamento
eroico dell'uomo che, rifiutati gli inganni consolatori, non si sottrae alle
dolorose verità materialiste ma da queste sa ricavare piuttosto un insegnamento
di solidarietà rivolto a tutti gli uomini, accomunati dallo stesso destino.
Prima
di tutto questo, però, La Ginestra è una romanticissima poesia di
contemplazione di paesaggi: paesaggi di rovine, di " deserti", di
"campi cosparsi di ceneri infeconde" su cui appena aleggia il
"profumo " consolatore della "gentile" ginestra ( strofa
1); e paesaggi sconfinati, immensi quali sono quelli dei cieli notturni con i
loro " remoti nodi quasi di stelle" a cui si fissano, smarriti e
sopraffatti , gli sguardi degli uomini
(strofa 4). Sono queste le immagini che il "pensiero poetante"
innalza al valore di simbolo, oggettivando in esse la grandiosità della natura
e la piccolezza dell'uomo.
E guardiamo al microscopio, allora, le
antitesi lessicali della prima strofa, che si apre sul potente paesaggio
dominato dal "formidabil
monte/sterminator Vesevo". Ai
"campi cosparsi/ di ceneri
infeconde", all ' "impietrata lava", alla "ruina"
che tutto "intorno involve",
all' " altero monte/ dall'ignea bocca", si oppone la presenza umile
della "odorata ginestra", unica presenza di vita, solitaria e
tenace. E' l'umile "fior gentile" che " amante"
dei luoghi solitari," compagna" del destino infelice, "abbellisce"
l' aspro paesaggio vulcanico ed " esala un "profumo/ che il
deserto consola". Eccoli qui i due personaggi tragici, uno di fronte
all'altro, l'uno portatore di morte e rovina, l'altra pietosa e dolce presenza consolatrice.
La seconda strofa si apre su toni declamatori con
quell'imperativo " Qui mira e qui ti specchia/ secol superbo e
sciocco" che chiama
direttamente in causa il destinatario primo del componimento leopardiano, la
società ottocentesca stoltamente superba nella sua fede progressista e che il
poeta invita ad affacciarsi su quello scenario di arida pietrosità, epifania
demistificante di ogni illusione antropocentrica. Solo progredendo sulla strada
aperta innanzi dai lumi settecenteschi e rifiutando gli inganni della ragione,
come già diceva il Tristano delle Operette
morali “ si cresce in civiltà”.
I toni
ragionativi continuano nella terza strofa, in cui Leopardi
mette a confronto la stoltezza di chi promette glorie illustri e felicità a una
umanità che “un’onda /di mar commosso”, “ un fiato/ d’aura maligna”, “ un
sotterraneo crollo” possono distruggere in un momento con la grandezza,
davvero eroica, di chi sa guardare in faccia il proprio arduo destino e
virilmente soffrire ( “ Nobil natura è quella/ che a sollevar
s’ardisce/ gli occhi mortali incontra/al comun fato e che con franca lingua/
nulla al ver detraendo/ confessa il mal che ci fu dato in sorte, e il basso
stato e frale” ).
Qui si introduce la parte finalmente construens della riflessione leopardiana
e il superamento delle sconsolate
conclusioni di Tristano. Rivediamone un momento alcuni passaggi. E’ necessario,
perché La ginestra, senza rinnegare
le posizioni dell’ultima Operetta morale ne costituisce però un superamento, essendo
questa volta “la pietà” a prendere il
posto del “riso” con cui Tristano si
prendeva gioco degli uomini, preferendo ai loro puerili inganni “tutte le conseguenze di una filosofia
dolorosa ma vera”. Era una solitudine sdegnosa ed eroica quella nella quale
si chiudeva Tristano, che scandiva il suo credo esistenziale nella enunciazione
perentoria della paratassi:
“Calpesto la vigliaccheria degli uomini,
rifiuto ogni consolazione e ogni inganno puerile, ed ho il coraggio di
sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto
della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare
tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa ma vera”.
Cosa c’è in più, dunque, ne La ginestra? C’è la conclusione che l’uomo
è innocente e che solo un amore fraterno, generato dalla coscienza della comune
fragilità, una solidarietà amica che sappia stringere “ i mortali in social
catena” contro l’unica nemica, può rendere più sopportabile la vita non
accrescendo al male della natura il male che l’uomo fa all’uomo.
Nella 4^
strofa ritorna una poesia contemplativa che sembra recuperare situazioni e toni
“ idilliaci” ( “ seggo la notte… veggo dall’alto fiammeggiar le stelle… e quando
miro…al pensier mio / che sembri allora”) salvo poi
declinarli in una sintassi ardua e vertiginosa come vertiginoso è quel cielo
profondo, infinito in cui si inoltra e smarrisce lo sguardo leopardiano.
Straordinariamente densi di allusioni ed echi
letterari questi versi, come se ci fosse bisogno di sprofondare anche negli
altrettanto immensi cieli poetici per dare slancio alla propria domanda
esistenziale riaccordandola con quella di tutti i secoli.
Vediamo meglio. Echi pascaliani si levano dai
versi “ e poi che gli occhi a quelle luci appunto/
ch’a lor sembrano un punto/ e sono immense, in guisa/ che un punto a petto lor
son terra e mare/ veracemente; a cui l’uomo non pur, ma questo/ globo ove
l’uomo è nulla,/ sconosciuto è del tutto” .
Confrontiamoli con i
Pensieri di Pascal:
L’uomo contempli dunque la natura tutta intera nella
sua piena e alta maestà…la terra gli apparisca come un punto in confronto all’immenso giro che quell’astro ( il
sole) descrive…E se a questo punto la nostra vista si arresterà, l’immaginazione
vada oltre…Che cos’è l’uomo nell’infinito? )
Non è tutto. L’immagine della “terra come
punto” è consueta nel topos della contemplazione della terra dall’alto,
presente in Cicerone, Seneca, Dante come, dopo Leopardi,
in Pascoli.
Confronta bene:
Cicerone,
Somnium Scipionis “ Erant autem eae stellae quae numquam ex hoc loco vidimus, et eae
magnitudines omnium quas esse numquam suspicati sumus… Iam vero ipsa terra mihi
parva visa est, ut me imperii nostri, quo quasi punctum eius attingimus,
paeniteret”
Seneca, Naturales
Quaestiones, Prefazione, “ Punctum est istud in quo
navigatis, in quo bellatis, in quo regna disponitis… sursum ingentia spatia
sunt”
Dante, Paradiso,
XXII, “Rimira in giù, e vedi quanto mondo/ sotto li piewdi già esser ti fei/…/
Col viso ritornai per tutte quante/le sette spere, e vidi questo globo/ tal ch’io sorrisi del suo vil sembiante/…/ L’aiuola che ci fa tanto feroci/…
/tutta m’apparve da’colli a le foci”. (da notare che la parola
“aiuola” è calco dal latino “areola” = piccola area, spazio esiguo e limitato
più che “giardino”
Perfino gli accenti dei Salmi sembrano
ritrovarsi, seppure naturalmente in chiave antiprovvidenziale: anche qui,
confronta i vv. 174-185
“e quando miro/ quegli ancor più senz’alcun
fin remoti/ nodi quasi di stelle/ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo/
e non la terra sol, ma tutte in uno, /del numero infinito e de la mole/ con
l’aureo sole insiem, le nostre stelle/ o sono ignote, o così paion come/ essi
alla terra, un punto/di luce nebulosa; al pensier mio/ che sembri allora o
prole dell’uomo?
Con Salmo 8 “ Se guardo il Cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu vi
hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché
te ne curi?”
Come partendo dalle prime e più percepibili
stelle lo sguardo di Leopardi si spinge
sempre più a fondo nell’immensità
del cielo e del pulviscolo sidereo, altrettanto sembra che dentro una
reminiscenza poetica egli ne rintracci un’altra e un’altra e un’altra ancora:
gli intrecci infiniti delle parole dei poeti