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lunedì 29 ottobre 2012

Sui Promessi Sposi



Qualche osservazione sul I capitolo dei Promessi Sposi e qualcos’altro




L’inizio dell’azione è collocata il 7 novembre del 1628.
Dopo avere fissato Don Abbondio, nella sua abituale passeggiata, “ per una di queste stradette”, e avere posto nel suo campo visivo i due bravi che lo stanno aspettando,  il racconto viene già interrotto da una prima digressione nella quale si dà conto delle Gride pubblicate contro i Bravi.
La prima grida menzionata è del 1583; ne vengono poi subito dopo ricordate altre (1593, 1598, 1600, 1612, 1618).
Sono tutte le disposizioni di legge che, come si vede dalla successione delle date, restano inevase perché il potere legale non vuole operare realmente contro il potere reale dei vari signori e signorotti. Quelle delle gride sono dunque parole vuote, lettera morta.
Allorché la narrazione riprende, con il primo scambio di battute fra il curato e i due bravi,  che sono anche le prime pronunciate da personaggi del romanzo  : ( “ Signor curato” disse un di que’due, piantandogli gli occhi in faccia. “ Cosa comanda?” rispose subito don Abbondio), ci viene subito mostrato quali sono i meccanismi che regolano i rapporti sociali e qual è il rapporto reale fra il diritto e la forza.
  Nella succitata digressione si esercita l’ironia del narratore che, nello stesso momento in cui riferisce le parole della legge vi introduce la sua intenzione comunicativa “ altra” che deforma grottescamente la prima, svelandone la vuota ridondanza.
All’udire parole di un tanto signore, così gagliarde e sicure, e accompagnate da tali ordini, viene una gran voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre. Ma la testimonianza di un signore non meno autorevole ci obbliga a credere tutto il contrario.”
Ed ecco nuova grida dell’ “Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Pietro Enriques de Acevedo, Conte di Fuentes, Capitano e Governatore dello Stato di Milano” , a proposito della quale così commenta il narratore:
Convien credere però che non ci si mettesse con tutta quella buona voglia che sapeva impiegare nell’ordir cabale, e nel suscitar nemici al suo gran nemico Enrico IV; giacchè per questa parte, la storia attesta come riuscisse ad armare contro quel re il duca di Savoia, a cui fece perder più d’una città; come riuscisse a far congiurare il duca di Biron, a cui fece perdere la testa; ma per ciò che riguarda quel seme tanto pernicioso de’bravi, certo è che esso continuava a germogliare il 22 settembre dell’anno 1612”

Attraverso il procedimento dell’ironia viene creata una distanza critica tra l’oggetto rappresentato( il 600)  e lo sguardo su di esso( il narratore ottocentesco), e ognuno è presentato nella sua autonomia di realtà. Il romanzo orchestra in questo modo una pluralità di voci che sono altrettanti “punti di vista sul mondo” .
Abbiamo visto sopra una partitura doppia divisa tra la parola- documento ( le grida) e la parola- commento ( il narratore), che trasforma in problema la certezza dei fatti.
 
Ma la dialogicità opera anche a distanza, nelle parole dei personaggi adattate a referenti diversi,  in una relazione tra le parole e le cose  variabile a seconda delle esperienze e dei vissuti individuali. Così, per esempio, quelle che l’Anonimo definiva in base all’appartenenza sociale “genti meccaniche e di picciol affare” , Renzo, Lucia, Agnese, sono i “ poveri cari tribolati” che padre Cristoforo difende al cospetto del più forte, gridandone i diritti nel nome di Dio:
 “ Non s’ostini a negare una giustizia così facile e così dovuta a de’poverelli. Pensi che Dio ha sempre gli occhi sopra di loro, e che le loro grida, i loro gemiti sono ascoltati lassù.” (Colloquio fra Don Rodrigo e Padre Cristoforo VI )





E saranno la “ gente di nessuno” nella sprezzante definizione di don Rodrigo, sicuro dell’impunità quand’anche dovesse mai esserci qualche sospetto su di lui a proposito del rapimento di Lucia:

.“ In quanto ai sospetti – pensava- me ne rido. Vorrei un po’sapere chi sarà quel voglioso che venga quassù a vedere se c’è o non c’è una ragazza. Vena, venga quel tanghero, che sarà  ben ricevuto. Venga il frate, venga. La vecchia? Vada a Bergamo la vecchia. La giustizia? Poh, la giustizia!. Il podestà non è un ragazzo, né un matto. E a  Milano? Chi si cura di costoro a Milano? Chi gli darebbe retta? Chi sa che ci siano?Son come gente perduta sulla terra; non hanno né anche un padrone: gente di nessuno(cap.    XI, )


  Facciamo un ultimo esempio provando a seguire la parola “ forza”, ricorrente numerose volte nei primi capitoli del romanzo.
Quando il termine compare per la prima volta, nella presentazione di don Abbondio e “de’tempi in cui gli era toccato vivere”, esso viene tematizzato come nucleo problematico della società secentesca:

“ La forza legale non proteggeva in alcun modo l’uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi da far paura altrui[…] L’impunità era organizzata, e aveva radici che le grida non toccavano, o non potevano smuovere[…] All’apparire delle gride dirette a comprimere i violenti, questi cercavano nella loro forza reale i nuovi mezzi più opportuni, per continuare a fare ciò che le gride venivano a proibire[…]
Il nostro don Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro[…] Non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. […]
Se si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando far vedere all’altro ch’egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché non avete saputo essere voi il più forte? Ch’io mi sarei messo dalla vostra parte” ( cap. I)

La seconda volta la parola viene pronunciata da don Abbondio incalzato da Renzo  che, dopo avere parlato con Agnese, è rientrato in canonica per mettere alle strette il curato e al quale, con apodittica perentorietà, quasi si trattasse di una legge di natura, dice:

“ Per amor del cielo! Non si scherza. Non si tratta di torto o ragione; si tratta di forza” 
(cap.II)

E ancora di fronte al Cardinale Borromeo, che gli chiede ragione  del suo rifiuto a celebrare il matrimonio, don Abbondio oppone le ragioni inoppugnabili della forza cui non resta, a chi è debole, che sottomettersi:

Monsignore illustrissimo, avrò torto. Quando la vita non si deve contare, non so cosa ridire. MA quando s’ha a che fare con certa gente, con gente che ha la forza, e che non vuol sentir ragioni, anche a voler fare il bravo, non saprei cosa ci si potesse guadagnare” (cap.XXV)

E’ solo nella prospettiva della fede e della carità alla quale lo richiama il Cardinale che la “forza” può cessare di essere la misura regolatrice dei rapporti umani, sopravanzata da una “Giustizia” che non chiede a nessuno, sulla terra, di abbattere il male ma di contrastarlo con la Carità e la speranza nella Buona Novella.

E non sapete voi che il soffrire per la giustizia è il nostro vincere? […] Qual è la buona nuova che annunziate a’poveri? Chi pretende da voi che vinciate la forza con la forza? Certo non vi sarà domandato, un giorno, se abbiate saputo fare stare a dovere i potenti; che a questo non vi fu dato né missione né modo. Ma vi sarà ben domandato se avrete adoprati i mezzi ch’erano in vostra mano per far ciò che v’era prescritto, anche quando avessero la temerità di proibirvelo”

 

Parole non molto diverse da queste saranno pronunciate da padre Cristoforo per Renzo e Lucia, finalmente ricongiunti nel Lazzaretto. Nell’accompagnarli sulla soglia di quella che sarà la loro vita insieme, padre Cristoforo consegna a Renzo, quale viatico per il tempo futuro che si apre loro davanti,  il pane da lui conservato per tutta la vita in segno del perdono ricevuto dalla famiglia dell’uomo che egli aveva ucciso. Ma mentre si chiude lietamente  una vicenda di patimenti, di dolore e di prove, si riprospettano, nel mondo che verrà, le insidie, i soprusi, le violenze di sempre:


“ Qui dentro c’è il resto di quel pane… il primo che ho chiesto per carità. Lo lascio a voi altri: serbatelo; fatelo vedere ai vostri figliuoli. Verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo a’superbi e a’provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! Tutto, tutto!”





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